Di ORAZIO BOCCIA
Facevamo i lustrascarpe, sciuscià ci chiamavano, c’inventavamo mille trucchi, rubavamo dalle jeep, sbucavamo da ogni parte così fu stabilito il coprifuoco solo per i ragazzi. Alle otto di sera tutti a casa, altrimenti… Mi pescarono tre o quattro volte, volevano mandarmi a Napoli. Intervenne una sorella di papà. Chiese aiuto al dottor Gravagnuolo. Finii al Serraglio”. Il Serraglio era regolato da un doppio sistema di segregazioni, quello esterno, che lo divideva dalla società civile, e quello interno regolato dalla rigidità degli spazi e dei movimenti, dall’assenza di ogni iniziativa. Come si viveva, cosa si faceva, lo sapeva solo chi ci stava dentro; per quelli di fuori dietro l’alto portone c’era un mondo altro, diverso, lontano, quasi inesistente. “Vestivamo un paio di pantaloni corti, una camicia leggera. Eravamo scalzi perché non c’erano scarpe. E la fame, poi. Quanta fame ho patito allora, tanta che mi sembra a volte di sentirla ancora. Ci davano cento grammi di pane la mattina, altri cinquanta a mezzogiorno e da ultimo, la sera, centocinquanta grammi. Eravamo circa quattrocento ragazzi e ad ognuno toccavano, come “corredo” un cucchiaio, un bicchiere ed un tovagliolo. Chi usciva metteva il tovagliolo nel bicchiere così gli addetti sapevano che non avrebbe mangiato. C’erano due tipi di scodelle, una piccola per quelli fino a quindici anni ed una grande per gli altri. Arrivavano i pentoloni con la zuppa e a mano a mano che si riempivano le scodelle la zuppa diminuiva. Allora il pentolone veniva riportato in cucina. Invece di rifondere la zuppa, che era finita, veniva aggiunta acqua cosicché all’ultimo della fila toccava solo acqua con l’odore della minestra. Non c’era nemmeno bisogno del cucchiaio: la zuppa si beveva e finiva lì. Per tenerci in piedi ci davano l’olio di fegato di merluzzo: na’schifezza” . Mi ricordo che un ex allievo aveva fatto fortuna in America come sarto e allora prese a mandarci scarpe e vestiti, ma non bastavano mai per tutti. Ogni tanto saliva al Serraglio con la moglie e per loro si preparava un bel pranzo. Tenevano nu’ caniello che lasciavano al guardiano. Io allora mi offrivo per portare da mangiare al cane. Mi davano una ciotola con la pasta e io me la mangiavo al posto del cane. Poi la riportavo indietro bella pulita e dicevo alla signora che il cane s’era mangiato tutto e che gli era piaciuto assai. Il nome di quell’uomo era Raffaele Adesso York. La mattina si andava a scuola; chi non frequentava la scuola jeva a ‘o mestiere: falegname, sarto, tipografo… Alla mezza si mangiava. Prima di riprendere le attività ci toccava uno spacco”. Dire ch’era tempo libero suona ridicolo ed offensivo. Tempo libero, al Serraglio, significava un poco, ma poco!, di ginnastica e, naturalmente, pallone.Si giocava nella “Villetta” una terrazza disadorna, con le palle di pezza. “Le facevamo con gli asciugamani, i calzini… Eravamo dieci, quindici squadre e giocavamo tutti mischiati, ma ognuno riconosceva la palla sua anche se era uguale alle altre, e ognuno sapeva quali erano il suo portiere e la sua squadra. Non c’era niente di regolamentare in quelle partite, nemmeno le regole”. Il Serraglio si meritava in pieno quel nome che gli era stato appioppato chi sa quando, chi sa da chi. Orazio lo definisce un mondo animale, fatto di spalmate alle mani con manici di scopa messi a indurire nell’acqua, di ore in ginocchio sulle pietre con le braccia in alto a reggere una tavola. Tuttavia il concentrato della disperazione si consumava nelle ore malinconiche della sera. All’ora stabilita, tutti a letto in silenzio e con gli occhi chiusi. Guai a parlare, c’era subito pronta una punizione, e se il colpevole non si autoaccusava, tutti giù dal letto in fila e via botte. La mattina tutti pronti al segnale della sveglia a balzare giù dal letto, altrimenti erano ancora botte. La notte era crudele; si stava sdraiati su tre tavole di legno con un materasso di paglia, d’inverno senza coperte, stando bene attenti ad evitare le fessure tra una tavola e l’altra. Poi il silenzio si spandeva nel buio sopravanzante, montava nell’animo e nel cervello una solitudine infinita, un’angoscia che solo il sonno, quando arrivava, riusciva a stemperare. La notte era un tempo disperato popolato di ombre spesse che davano la misura dell’abbandono. “Andai a scuola, per la prima volta, a dodici anni. Arrivato in seconda feci il salto alla quarta e finalmente arrivai alla licenza. Il professor Molinari, maestro di quinta e futuro professore alla media, mi disse chiaramente che se avessi proseguito la scuola, lui m’avrebbe bocciato senza pietà. Decisi che la licenza elementare era più che sufficiente e mi misi ad imparare il mestiere. Al Serraglio c’erano ragazzi di tutti i tipi, ma io ero fra quelli più svegli, mi sapevo difendere e perciò mi rispettavano pure gli istitutori, tanto che mi nominarono prima “caporale” e poi “capo-scelta” e mi toccò pure un “attendente”: Lucio Del Mastro mi procurava qualsiasi cosa volessi. Con tutti i mezzi”.“Chi c’era con te?”. “Tanti, eravamo tanti; ognuno ha trovato il suo spazio nella vita, molti sono diventati famosi: Gerardo Marotta, che è stato direttore del Banco di Napoli, Iginio Furciniti, anche lui impiegato del Banco di Napoli, il fratello Elio, ragioniere della Forestale, poi Giambattista Cioffi, divenuto un ottimo commercialista, Romoletto Carluccio, economo degli Istituti Professionali, Salvatore Carmando, massaggiatore del Napoli, grande amico di Maradona, e grandi musicisti, perché l’Umberto I° era anche conservatorio di musica: Mario Liguori, flicorno tenore diventò il direttore della banda di Acquaviva delle Fonti; Condolucci, primo clarinetto al Petruzzelli di Bari, Mario Baldino, flautista. Anche io suonavo, il flicorno tenore per essere precisi, ma nella banda mi facevano suonare i piatti. E poi Armando Fagiani, un grande linotipista, altri di cui ricordo solo il cognome: Faiella, maestro di musica, De Stefano, Della Calce, Incoronato…” . Tanti davvero, accomunati da una sorte cattiva divisero solitudine e fame, punizioni e sogni. La vita al Serraglio cambiò con l’arrivo di Menna, il Commendatore, come lo chiamavano tutti, vietò le punizioni corporali e umanizzò la vita dei ragazzi. Diventato adulto Orazio lascia finalmente il Serraglio e si guarda intorno in cerca di lavoro. La guerra era finita, c’era in giro la voglia di ricominciare, di costruire e ricostruire, eppure per Orazio non c’è spazio. Appena viene fuori che ha imparato il mestiere al Serraglio tutte le porte gli si chiudono in faccia. Un serragliuolo non era persona di cui ci si potesse fidare e, come se non bastasse, lui stava a San Giovanniello. Matura in Orazio la coscienza sociale e politica. La giovinezza grama, la speranza del riscatto, il sogno di un mondo più uguale e più giusto per tutti, la voglia di impegnarsi perché quel sogno si realizzi lo portano ad iscriversi al P.C.I., a lavorare e combattere fianco a fianco con Feliciano Granata, Pietro Ingrao, Vasco Pratolini, Tommaso Biamonte, Ninì Di Marino, Giovanni Perrotta, Pietro Amendola, Emilio Sparano, Riccardo Romano, Cecchino, Diego e Peppino Cacciatore, Vincenzo De Luca. La militanza comunista, naturalmente, contribuì a non fargli trovare lavoro. Tentò, senza successo, di concorrere per un impiego nelle Ferrovie, provò nel corpo dei Vigili Urbani, addirittura cercò di entrare come bidello nelle scuole, in quello stesso Istituto Professionale per l’Industria e l’Artigianato presso il quale, molti anni dopo, fu nominato Commissario d’esame. “Chiesi all’’ingegner Reale, che era allora il preside, se fosse possibile fare una piccola ricerca in archivio. Me ne chiese, ovviamente, il perché ed io: “Vorrei sapere com’è che allora non ero buono come bidello – risposi – e adesso sono buono come commissario!”. Insomma, per lavorare Orazio dovè tornare al Serraglio e cominciò il suo sofferto rapporto di odio-amore con Menna, rapporto che si protrasse per anni. Il Commendatore non accettava che quel giovane e impudente comunista gli rispondesse a tono, tuttavia lo mandava a chiamare ogniqualvolta aveva bisogno di una persona di fiducia. L’ex allievo divenuto operaio non esita ad organizzare uno sciopero, il primo in assoluto al Serraglio, per ottenere miglioramenti per i lavoratori. Convocato dal Commendatore, quando gli fu chiesto quanto volesse per porre fine allo sciopero rispose, con orgogliosa fierezza “Io non sono in vendita”. Nel frattempo arriva all’orfanotrofio una nuova impiegata. Viene ogni mattina da Cava dei Tirreni, si chiama Luisa Pecoraro, è caporeparto all’allestimento, ha un faccino delizioso, un paio di occhi liquidi e profondi che fanno perdere la testa ad Orazio che la corteggia con il timido cerimoniale di allora: sguardi di sottecchi, mezze parole, complimenti sussurrati. Luisa lo osserva, quasi lo soppesa. Orazio è bello, sicuramente di ragazze ne avrà avute tante, ma lei è innamorata persa ed alla fine gli dice di sì. Figurarsi la famiglia di lei: una ragazza seria, cresciuta a mollichine, si va a fidanzare con un serragliuolo, una testa calda… Al Serraglio la situazione non è migliore: anni prima c’era stato un altro fidanzamento però gli interessati lo avevano tenuto nascosto e per punizione tutte le ragazze erano state sospese. Ad Orazio viene posto l’aut aut: o lui o la ragazza deve lasciare il lavoro; lui, alzando insofferente le spalle, risponde “io mi fidanzo co’ tutt’è guaglione ca stanno ccà dinto!”. “Il Commendatore mi chiamò: “Dimmi quello che vuoi; io faccio le carte false, ma tu da qua te ne devi andare. Feci subito la mia proposta: una macchina per tipografia, caratteri di stampa, soldi e commesse con pagamento in contanti. Menna disse sì a tutto”.
Da “Storia di uno scugnizzo”