Cronache di violenze annunciate….mai denunciate
Gaetano Sica clarinettista descrive la vita all’orfanotrofio Umberto I tra poche luci e moltissime ombre, tra cui la violenza fisica, psichica e pure a sfondo sessuale, che veniva perpetrata tra le mura di quell’ enorme complesso
Gaetano Sica
Sono nato nel 1953, ed entrai all’Orfanotrofio Umberto I nel 1963, divenuto, in seguito “Istituto Umberto I”, rimanendovi fino al 1974, ovvero dalle scuole medie fino al conseguimento del diploma superiore di musica. Prima di accedere al cosiddetto Serraglio, ho avuto diverse esperienze in numerosi collegi, sono stato ad Avigliano; a Napoli salita Miradois presso la Congrega delleReligiose Francescane, dalla 1ᵃ alla 4ᵃ elementare più comunione e cresima, gestito da suore, perfide, cattive, disumane, presso il convento di S. Antonio a Mercato S. Severino, solo per la 5ᵃ elementare, gestito dai monaci , cattivissimi anche loro, mentre l’estate del 1963 sono stato ospite della colonia S. Francesco di Salerno sempre gestita da suore, prima di entrare dall’autunno 1963 fino al 1974 all’ “Orfanotrofio Umberto I” dove ho avuto modo di condividere gioie e dolori con tanti sventurati come me, che non ho mai dimenticato e che ho voluto fortemente rivedere e, perché no, anche frequentare. Ho iniziato la “caccia”, man mano che incontravo qualcuno, ci scambiavamo il numero del telefono, inizialmente erano soprattutto quelli che avevano frequentato il conservatorio, come me. Nel 2010 c’è stato il 1° incontro, poi ne sono susseguiti altri. A tutt’oggi ci siamo incontrati, per occasioni varie, almeno una settantina di volte. Siamo diventati un piccolo esercito di circa 200 ex allievi e di almeno tre generazioni. Il tutto si è potuto espandere e crescere in modo esponenziale anche perché l’amico e omonimo Sica Vincenzo, nel 2012, aveva iniziato da un’altra parte a fare la stessa cosa. Infine, avendo saputo ognuno dell’altro, abbiamo unito le nostre ricerche e il numero dei partecipanti è salito in modo esponenziale. A tutt’oggi ci frequentiamo, ci aiutiamo, ci rispettiamo, ci amiamo. Era duro vivere in Istituto, una divisa per i giorni di scuola, uno per la domenica e i giorni di festa; si mangiava…tutti i giorni, mattina, mezzogiorno e sera. Altrimenti? O ti mangi sta minestra o…; la doccia ci toccava una volta a settimana, cronometrata, 5 o 6 minuti al massimo, con la voce stentorea dell’istitutore che impartiva gli ordini in sequenza,“bagnarsi” 1 – 2 min.; “insaponarsi” dalla testa ai piè, con un pezzetto di sapone per i panni, tipo scala o sole, tagliato in almeno 20/30 rettangolini, 2 – 3 min.; 3 – “sciacquarsi”, altri 2 min. Con la doccia c’era di conseguenza il cambio degli indumenti intimi che non erano né nominativi né numerati, poteva capitarti anche la biancheria intima di un altro, come pure i calzini, la maglia. Riguardo le toilettes, in ogni camerata c’erano 4/5, bagni, quelli turchi, in tutto su 80 ragazzi circa, niente acqua calda, niente carta igienica, usavamo quella dei giornali, molto morbida ma piena d’inchiostro, o fogli dei quaderni, duri come carta vetrata. Nonostante questa qualità molto bassa di vita, coloro che avevano ambizioni, le hanno potuto realizzare grazie alla generosità di quest’istituzione voluta fortemente dal Comm. e sindaco di Salerno Alfonso Menna che noi non finiremo mai di ringraziare. Infatti, c’erano scuole di ogni ordine e vari mestieri, ceramica, tipografia, conservatorio, falegnameria, calzolaio, sartoria. Dall’istituto sono usciti il fior fiore di strumentisti che hanno coperti ruoli nelle grandi orchestre, nelle prestigiose bande militari, solisti d’eccellenza, insegnanti nei vari ordini di scuola; tipografi, ceramisti, ma passiamo alle note dolenti, che portiamo dentro da sempre e che non riusciamo a cancellare (alcuni “serragliuoli”, infatti non hanno voluto condividere questi momenti di gioia e aggregazione per non “risvegliare” il passato). Un’ ombra nerissima di quell’ istituto e non di poco conto era la violenza fisica, psichica e pure a sfondo sessuale, che veniva perpetrata tra le mura di questo enorme complesso che sovrasta la nostra città di Salerno, (il complesso è un insieme di conventi ed edifici situato nella parte alta del centro storico), lo si può vedere da ogni parte, dal teatro Verdi fino a Mercatello. Infierire sui deboli da parte di chi si sente forte e protetto dall’ omertà, è consuetudine dell’essere umano. Tutti si sentono liberi di farlo quando nessuno interviene, per paura o per ritorsioni. E non mancavano queste forme di violenze assurde, crudeli, inumane, spropositate; in un collegio/istituto come l’Orfanotrofio Umberto I o semplicemente “serraglio” così conosciuto dai salernitani, che l’usavano molto spesso per minacciare i figli con la frase fatta: “te vaco a chiudere rint’ ‘o serraglio si nun faje o’ bravo”. Le famiglie disagiate, in condizioni molto precarie chiedevano aiuto e/o assistenza alle autorità, che a loro volta prendevano in cura i minori “parcheggiandoli” negli istituti, convinti, in buona fede, di poter dar loro la possibilità di avere tutto ciò che un bimbo dovrebbe ricevere: amore, cibo, vestiario, assistenza, cura, istruzione, svago (mai e poi mai si sono chiesti se i bambini fossero sereni). Alcune volte le autorità venivano in visita nell’istituto, facevano domande e si ricevevano solo risposte esaustive perché tra noi ragazzini c’erano anche gli “aguzzini” (ragazzi più grandi di età, cattivi nell’animo, che erano stati scelti per mantenere l’ordine al posto dell’istitutore che si sentiva più libero e sereno di fumarsi una sigaretta o di leggere il giornale in santa pace), senza vedere negli sguardi la paura, l’angoscia, il terrore, così se ne andavano sereni e questo era il miglior modo per tranquillizzarsi ed avere la coscienza a posto. Ciò che che qui vi racconto può essere capito solo da chi come me le ha vissute direttamente o è stato testimone obbligato ad assistere impassibilmente a queste violenze che non sono tratte da film horror (per fortuna si aveva il libero arbitrio solo delle proprie ignominie, il tutto è, ahimè, puramente realtà), violenze che avvenivano in un ambiente dove convivevano circa 600/700 e più ragazzi divisi in 7/8 camerate, che avevano un’età che andava dai 5/6 anni ai 20/21 anni. La giornata tipica di un serragliuolo prevedeva: alle 6,30/7,00 sveglia, lavarsi in fretta, con l’acqua molto gelata, fare il proprio letto, piegare le lenzuola e metterle in mezzo al materasso piegato, col cuscino, sopra il materasso piegato in due si doveva mettere la coperta, a volte i più deboli dovevano fare anche il letto di qualche prepotente altrimenti erano dolori, scopare e lavare la camerata, allineare 3 file di letti coi rispettivi materassi e coperte, ogni rete con il materasso e la coperta doveva essere allineata con il primo letto, (tutto questo anche se c’erano le donne della pulizia, stipendiate), lavare le latrine dove c’erano passati circa 80 ragazzi con problematiche varie, bastava che uno sbagliasse buco e succedeva il finimondo, ognuno doveva districarsi tra carte ed escrementi e non sapevi più dove poggiare i piedi; alle 7:30 tutti in villetta allineati e coperti per l’alzabandiera, dopo in refettorio, per consumare la colazione, inizialmente latte in polvere, la polvere appena macchiava l’acqua, il sapore era disgustoso, allora si ricorreva a qualcosa che avevamo conservato la sera prima, mortadella o formaggio, avvolto in fogli di carta di quaderno, e messo nell’intercapedine tra il sediolino e il tavolo, che trovavamo pieno di formiche e che dopo averlo scosso, via giù con un cestino di pane. Era probabile che qualcuno avesse rubato, però, l’involto prima (i furti erano una pratica molto diffusa). Tra i compagni c’era anche chi aveva del salame paesano, alla richiesta: “me ne dai una fettina”, e poichè eravamo in tanti, il compagno non te la rifiutava, però te ne dava una fettina molto ma molto sottile, direi trasparente, ci potevi guardare attraverso, e solo con l’odore, mangiavi un cestino di pane, poi nell’ultimo boccone mangiavi la fettina di salame e aveva un ottimo sapore; alle 8;30 in classe per assistere e partecipare alle lezioni, 5 ore, fino alle 13:30; dalla scuola si passava direttamente al refettorio per consumare il pranzo, uguale per ogni giorno della settimana; dopo pranzo, intorno alle 14:30 un po’ di ricreazione, 600 ragazzi vogliosi di muoversi, in un cortile, che noi chiamavano “villetta”, spuntavano decine e decine di palloni, che a seconda dell’istitutore di turno potevamo o meno giocarci, (alcuni erano proprio delle vere e proprie carogne, lo sequestravano per distruggerlo). I proprietari dei palloni decidevano chi far giocare, si formavano tante squadre quanti erano i palloni; nelle due porte, agli estremi della villetta, fatte con giubbini e altro, c’erano una decina di portieri e coloro che non facevano parte delle squadre, tiravano calci a palle di carta, pezzi di legno, pietre, oppure facevano altri giochi: t’ foca e t’ liscio, struscio e scuoppo con le figurine dei calciatori, uno ‘mpont’ ‘a luna, scava scava ‘rre, ‘a porta americana, (gioco a calcetto con un portiere e due calciatori che sfidano altri due o tre contro tre), ‘a settimana, e cinche prete, esce papà Geronimo…anche nei giochi, naturalmente, erano comprese le violenze; verso le 16 e fino alle 18, di nuovo in classe per il doposcuola a fare i compiti per il giorno dopo; non si poteva “non studiare” perché dopo ci interrogavano sugli argomenti orali e ci controllavano gli scritti, chi non aveva studiato veniva punito (divieto di andare in sala cinema, divieto di andare a casa la domenica, pulizia delle camerate con i rispettivi bagni, divieto di guardare la televisione); verso le 18;30/19;00 si ritornava in refettorio per la cena; dopo cena, dopo aver fatto in villetta l’ammainabandiera (uno dei rettori era un ex generale), in camerata per prepararsi per la notte, ma prima c’erano le punizioni dei capisquadra e del capo scelta per chi non aveva studiato o si era comportato male. Erano sempre corporali e molto violente. C’era chi usava un bastone tondo, lungo, residuo di una sedia, che veniva lasciato in ammollo così da renderlo più pesante, si distribuivano “spalmate” sulle mani da dieci a venti, che potevano essere raddoppiate se per paura sottraevi la mano (il braccio doveva essere disteso in fuori, la mano aperta e col palmo in su, il bastone, come rincorsa, partiva da sopra la testa dell’aguzzino, per intenderci sulla violenza esercitata), chi invece si divertiva a legarti mani e piedi sul letto, sotto le unghie dei piedi venivano conficcati sterpi di paglia, presi dai nostri pagliericci (materasso ripieno di paglia) ai quali si dava fuoco; chi ti ordinava di arrampicarti fino alla cima di un palo, ce n’erano un bel po’ al centro della camerata, dovevi rimanerci a lungo, se ti stancavi e scendevi come punizione ancora spalmate o ti facevano dare una o più testate da un altro “serragliuolo” che aveva la testa molto dura, nel vero senso della parola; poi come se non bastasse agli sventurati venivano assegnati anche i compiti di riassettare la camerata e i bagni, fare i letti ai più grandi. Tra i divertimenti di quelli più “grandi” di età, non certamente di cervello, c’erano anche: il supplizio della cintura: il malcapitato veniva appeso con la cintura dei pantaloni sull’ attaccapanni e lasciato a dimenarsi per il dolore; tiro a segno con lo stucco per vetri: se ne faceva una grossa palla molto pesante, ti facevano mettere vicino al muro con il braccio disteso e mano aperta, leggermente staccata dal muro, con la palla di stucco doveva centrarti la mano; però per evitare di colpirti in faccia, comandavano un altro dei ragazzi di mantenerti sul viso una sedia; e per chiudere l’armadietto, un’altra brillante idea per divertirsi alle spalle dei più piccoli e indifesi: in classe c’era un piccolo armadietto con ante a vetrina, molto stretto di profondità, circa 20cm. e largo circa 1m. appena per farci entrare 4/5 ragazzi incastrati tra loro, poi facevano togliere i calzini, molto maleodoranti ad alcuni, (la doccia e il cambio erano una volta a settimana), li buttavano dentro e chiudevano la vetrina così da fuori ci si poteva divertire a vederli contorcersi e soffrire. Passiamo alla domenica, che doveva essere un giorno di felicità, di serenità. Dopo colazione si andava in chiesa per la messa, poi si ritornava nella propria camerata, ma tutti con l’orecchio proteso verso l’altoparlante che annunciava chi doveva recarsi in parlatorio perché sarebbero venuti i genitori a trovarti. Quasi sempre ti portavano qualche cosa di buono, noi la chiamavamo “zozza”: biscotti, caramelle, cioccolatini. Ricordo che mia madre ci portava (eh sì perché con me c’erano anche mio fratello Giuseppe più grande e, successivamente anche Olimpio, più piccolo, nascosto sotto i panni, della carne arrostita molto “sugosa” in un barattolo di vetro, che noi dovevamo consumare al momento; c’era pure chi portava, sempre furtivamente perché era vietato, salame, melenzane sott’olio, pomodori secchi, formaggio. Dall’incontro coi genitori neanche una parola sui maltrattamenti cui eravamo sottoposti, perché era molta la paura di ritorsioni. Finita la visita, si faceva ritorno in camerata dove ad aspettarti c’era il solito presuntuoso, arrogante, violento, che frugava fra la tua “zozza” e pretendeva anzi, prendeva buona parte di ciò che ti avevano portato i tuoi cari. Come se non bastasse, c’erano altre situazioni che creavano angoscia, timore, paura, erano la sostituzione del materiale scolastico di consumo: penna, matita, quaderno; ai nostri quaderni, venivano numerate le pagine per evitare che si potessero strappare per creare delle palle per giocare o altro: guai se ne mancava qualcuna; non solo, le pagine dovevano essere scritte dall’inizio alla fine del foglio, senza spazi vuoti; la penna doveva avere l’astuccio contenente l’inchiostro interamente vuoto e trasparente; (poteva capitare anche che qualcuno se l’era rubata, e al malcapitato toccava prendere ingiustamente la punizione, a meno che non avesse imparato a comportarsi come gli altri; la matita doveva essere consumata fino ad un centimetro circa. Anche gli indumenti dovevano essere integri, come pure le scarpe, guai a farsi vedere con il pantalone strappato o le scarpe rotte, scattavano subito le punizioni. Qualche istitutore usava la chiave della camerata, per farti male, la teneva fra le dita e alla prima occasione te la dava in testa con tanta violenza oppure ti dava delle “carocchie” (è il classico colpo sulla testa dato con la nocca del dito medio della mano). Che altro posso dire! Che nella testa di un bambino sottoposto a continue violenze non è mai balenata l’idea di farla finita? Ahimè, si! Dal finestrone della classe che affacciava sulla villetta, 15-20 m. di altezza, uno sguardo giù e mille pensieri nella testa, che svanivano al solo pensiero: “e se non dovessi morire che succederà? Che finirò sulla sedia a rotelle o immobile in un letto a soffrire ancora di più”, alla fine…sto qua a raccontare. Dopo tanta sofferenza chiudiamo con qualcosa di grottesco, comico nella sua tragicità. Si era subito capito che marcando visita e fingendoci deboli si poteva avere, come cura, una fettina di carne tutte le sere per un certo periodo di tempo. Allora? Tutti a marcare visita: dottore mi sento debole, mi gira la testa, facce sofferenti, emaciate, sguardo perso nel vuoto. Però una cosa non è stata mai chiara: perché il dottore a chi dava la carne, a chi invece delle iniezioni ricostituenti. Altri, soprattutto nel periodo invernale, andavano in infermeria perché accusavano di avere la tosse, solo per avere un sorso di sciroppo che per noi non era medicina ma soltanto una dolcissima e piacevole bevanda. Finita la scuola, nell’approssimarsi della stagione estiva, si doveva decidere, chi poteva, trascorrere parte delle vacanze estive coi propri genitori. Venivano esposti i risultati finali delle varie scolaresche, dai quali si evinceva chi fosse stato promosso, bocciato o rimandato. Coloro che erano stati promossi potevano andare a casa e trascorrere un mese di ferie presso i genitori, gli altri rimanevano in istituto per punizione.