Il massimo cittadino che affronta la prima stagione da effettivo teatro di tradizione, riparte dai titoli di quello stellare cartellone del 2008. Qualche anticipazione l’abbiamo offerta già a principio d’anno, ma ora il mosaico va piano piano completandosi e le tessere sicure, già incasellate, dalla direzione artistica di Daniel Oren, affiancato da Antonio Marzullo e Rosalba Loiudice, sono il ritorno all’operetta con “Die lustige Witwe” e “Turandot”. La “Vedova Allegra”, capolavoro del genere, ancora sulla scia del valzer, torna a Salerno per la terza volta. Esempio di una piccola cultura danubiana, la “vedova” suggerisce una delle ultime avventure mondane, in un mondo di ambasciatori, contesse, gigolò, viveurs squattrinati e alcove proibite. Un mondo dove la pochade si unisce alla commedia di sentimenti e dove ci si può ancora commuove, andando nei “cafè chantant”, pranzando a lume di candela, lasciando correre la fantasia sulle ali dei valzer. Anche se sappiamo che l’operetta è menzogna, che è incredibile, indosseremo il frac del conte Danilo e salveremo le finanze, chissà, della nostra Italia. A Pechino, al tempo delle favole ci accompagnerà la fantasia tutta napoletana di Riccardo Canessa, che dovrà leggere quell’opera chic, costellata di inquietitudini linguistiche e psicanalitiche, ma alfine legata anima e corpo, nella sua audace crosta impressionista, a un autentico retour à l’antique, che è la Turandot di un Giacomo Puccini, che dopo la quasi completa disgregazione della struttura operistica compiutasi tra Bohème e La fanciulla del West, sembra voler gradualmente ricomporre quel frammentarismo della prima maturità entro una specie di calco formale freddo e insieme dovizioso, dove le allusioni a Ravel e a Stravinskij, per quanto appariscenti e dotte, sono esclusivamente allusioni ormai, e non premonizioni come ai tempi di Bohème e Butterfly. Il nostro Riccardo dovrà far aleggiare nell’aria le giade, le sete, i metalli, i pinnacoli dei templi, il lampeggiare delle spade tartare di Turandot. Una partitura, grondante di suoni, splendente di impasti ferrigni, e luci diamantine, stellari che orchestra e coro del Verdi protagonisti nella fortunata tournée parigina. Chicca del programma dovrebbe essere il titolo verdiano scelto tra quelli poco conosciuti. Ad oggi, guida “I due Foscari”, datata 1844, opera integralmente tragica e, come ebbe a scrivere anni dopo lo stesso Verdi, di «una tinta, un color troppo uniforme», rivelante un clima drammaturgico che in seguito Verdi cercherà sempre di evitare, mirando piuttosto a una sintesi armoniosa di generi di diversa natura, un’opera che possiede un carattere intimo e raccolto preludio a Luisa Miller e un’inventiva formale che, più che altrove, si allontana dalle consuetudini. Altri titoli verdiani in ballo “I masnadieri” o un’attesissima “Forza del destino”, che in dirittura d’arrivo, ci potremmo magari ritrovare, in cartellone. Ritorna anche Carmen, dopo quella firmata da Gigi Proietti, decisa e sfrontata nella lusinga erotica, con quel quid di demoniaco, nello sguardo, con quella disperazione di chi è preda del demone Amore, che prende in essa le forme del symbolon, ovvero del difetto che attinge un eccesso, del basso che si congiunge in eros iniziatico alto, di colei che è continuamente disfatta da ciò che è o appare d’essere, in un continuo respingersi e disperarsi, imprendibile nella sua forza di syn-ballein, che aspira-insieme e si proietta turbinosa come un gorgo marino, plastica e plasmante. Ultima sorpresa “I Pagliacci”, che segneranno il ritorno in città di Franco Zeffirelli, unitamente allo Jago salva teatro Alberto Gazale che darà voce al malefico Tonio, gioiello di Leoncavallo che non sarà probabilmente accoppiato con Cavalleria Rusticana. Infatti, se si sceglierà l’allestimento zeffirelliano, il regista imporrà il discostamento dalla tradizione, scegliendo di presentare l’opera nella sua assolutezza, per restituirle, nella sua autonomia, la dignità che merita. La precederanno alcuni celebri brani sinfonici di Mascagni, un breve florilegio di brani veristi, senza offuscarne la fisionomia con l’accostamento a un’altra opera dai toni veristi e dunque forti. L’esecuzione in solitaria non sarà la novità di maggior rilievo della messa in scena. Zeffirelli, sceglie di cambiare l’ambientazione storica dal 1865/70, come specificato nel libretto, agli anni sessanta/settanta del secolo scorso. Come spiega egli stesso non per “attualizzare” l’opera ma per eseguirla come l’aveva concepita Leoncavallo che l’aveva ambientata in un ambiente moderno e quasi contemporaneo.
Olga Chieffi