Di Vincenzo Aversano
Continua l’articolo sui toponimi pubblicato su queste colonne ieri 25 marzo 2024 con un dubbio finale che mi pervade: che la Salernum romana, al singolare, non sia la versione di un plurale originario (canali a raggiera, come si dispongono lungo un colle conico, quello detto Bonadies, con in basso accumuli di “lame”), in riferimento insomma ai futuri “lavinai”, ossia alvei sfruttati come strade nella stagione secca. Ciò militerebbe più a favore del trasferimento dei 300 coloni, avvenuto di fatto nel 194 a.C., alla base dell’altura del Castello, eretto poi in epoca bizantina. Come che sia, forse un’eco plurale potrebbe anche trovarsi nel nome di Salernes in Provenza, piccolo centro tutt’ora esistente, pare fondato da nostri concittadini al seguito dell’esule Regina Giovanna d’Angiò, nel 1348, ove svilupparono l’arte ancora fiorente delle maioliche (tomettes de Salernes), non a caso richiamante le ceramiche di Vietri. Peraltro ad Avignone, nelle vicinanze, due secoli dopo si rifugiò e vi morì Ferrante Sanseverino, ultimo fra i Principi di Salerno…Mi si consenta di associare a quella di Salerno la decodifica del toponimo Coperchia, già casale della nostra città, non solo per amore alla mia patria di nascita, ma anche come esempio dei tanti nomi originariamente al plurale ma trasposti al singolare nei documenti ufficiali, come già detto, e per questo spesso incompresi nel loro significato: erroneamente cercato, in questo caso, nel greco erchie (angolo) o addirittura in Ercole (di cosa significhi Erchie si è già detto…) o in altre grullerie. La denominazione, infatti, era riferita alle tante piccole cupe, valloncelli stretti, profondi, alberati e perciò oscuri (donde cupercule-cupercle-cuperchie) che ne solcano il territorio, in particolare le tre che lo delimitano: ‘A cupa d’’o Grillo (confine con Capezzano), ‘Ncoppo ‘a cupa (parte alta del paese) e ‘A cupa ‘e nu filo (confine con Baronissi), dove la seconda parte del toponimo composto è deformazione popolare di “staffilo”, termine longobardo a indicare difatti uno steccato confinario. Ipotesi supplementare potrebbe essere la non ancora documentata esistenza in loco di un artigianato delle “cuperchie”, contenitori piatti, di vimini, usati per essiccare fichi e altra frutta, ma detti così a Cava e nell’agro nocerino-sarnese (zona da cui può essere stato “imposto” il nome), e non nel mio paese, dove invece si chiamano “cannizzi”. Strano destino dei toponimi, la cui decrittazione rimane spesso un po’ possibilistica… Tali dubbi non sorgono per altri toponimi al plurale già citati, e che forse ora meritano d’essere spiegati al meglio, seppur rapidamente. Comincio da Cava de’ Tirreni. La specificazione fu aggiunta, come in tanti altri omonimi di luogo, per distinguere questa cava, nella statistica postunitaria, da altre meno nobili: vi è richiamata l’ascendenza da Marcina, centro portuale degli Etruschi (Tirreni per i Romani) a Marina di Vietri, la cui distruzione obbligò a rifugiarsi nelle grotte carsiche delle alture retrostanti i sopravvissuti abitanti, che poi si raccolsero in Corpo di Cava, cioè centro primario dell’Abbazia benedettina sorta nello speco più asciutto (Crypta Arsicza). E’ chiaro che a tutta la zona, tuttavia, va riferito il vero iniziale toponimo al plurale del IX secolo (cavae, poi cave in lat. medievale), attestato dallo storico Erchemperto: locus, ubi Cabeis dicitur ( …) Cavaeque sunt ibidem antiquitus factae. Che poi la storia della città ne abbia registrato la discesa a valle e la grande fioritura, specie in età aragonese, è altro discorso e altro sito – si badi: insieme di valle, di conca e di spartiacque –, su cui si sono esercitati inutilmente, sbagliando epoca, gli sforzi di spiegazione del toponimo: cavea di teatro e simili, riferiti però alla seconda gemmazione, quella Città della Cava, di pianura incorniciata da alture, generata dalla Cava dell’Abbazia, a sua volta già denominata al singolare in quanto fortilizio accentrato rispetto all’universo delle grotte sparse antropizzate che ne avevano generato il nome. Meno complesso è il meccanismo onomaturgico di Ogliara e Torchiara, toponimi nati rispettivamente a significare la diffusione di piccoli trappeti per la premitura di olive (‘olearia’, plur. neutro di ‘olearium’) o palmenti atti a ricavare vino dall’uva (‘torcularia’, plur. neutro di ‘torcularium’, e non “torre chiara”, come l’immediata evidenza lascerebbe pensare…), il che ci educe anche circa le “dominanti” del paesaggio agrario e dei generi di vita nelle aree interessate, una olivicola e l’altra viticola. A quest’ultimo tipo di paesaggio si connette strettamente anche un altro toponimo, Arbostella (quartiere di Salerno) o ‘A revusta (località di Pellezzano), entrambi plurali del tardo latino ‘arbustum’, ossia vite maritata ad albero (tecnica già ligure-etrusca molto redditizia, su cui ci sarebbe tanto da dire), con il dubbio circa l’esatto senso del diminutivo-vezzeggiativo pluralizzato di ‘arbustellum’, oscillante tra “viti alberate di recente impianto” oppure sparpagliate nei campi, con l’esattezza nel rione Pastena del nostro capoluogo.