Di Federico Sanguineti
Se la parola «scuola», come non ci si dovrebbe mai stancare di ricordare, deriva dal greco σχολή, che vuol dire «otium», cioè riposo, sarebbe bene interrogarsi sulle ragioni del perché sia oggi ridotta a «negotium», cioè, in troppi casi, a defatigante esercizio burocratico di meccanica routine accompagnata da riunioni di stampo condominiale ‒ vuoi consigli di classe, vuoi consigli di dipartimento, vuoi incontri con le famiglie ‒, per non parlare poi dell’obbligo ai discenti di tirocini aziendali non retribuiti. Senza ritorno all’«otium» non si può pensare a una nuova didattica della letteratura. A scanso di equivoci, l’invito a un canone imparziale di scrittrici e di scrittori non significa allargare faticosamente il vecchio canone aprendo, qua e là, spiragli alle scrittrici. Si tratta invece di restringere l’intero canone a riposanti letture di pagine ormai a disposizione di chiunque. Benché ignorate in libri scolastici e universitari (colpa e vergogna delle umane voglie!), ogni metaforica sorella di Shakespeare trova infatti spazio in Internet: anche solo su Wikipedia si hanno notizie ‘illico ac immediate’ su Cristina da Pizzano, Isotta Nogarola, Cassandra Fedele, Laura Cereta, Gaspara Stampa, Veronica Franco, Isabella Andreini, Lucrezia Marinella, Petronilla Paolini Massimi, Faustina Maratti Zappi, Pellegra Bongiovanni, Luisa Bergalli Gozzi, Isabella Teotochi Albrizzi, Caterina Franceschi, Maria Giuseppa Guacci Nobile, Annie Vivanti, la Marchesa Colombi, la Contessa Lara, Clarice Tartufari e via dicendo, fino a Carla Lonzi. I libri scolastici sono destinati a essere riposti per sempre: il materiale e l’immaginario sono in rete e, ove occorra, in biblioteche pubbliche su pergamena o carta manoscritta o a stampa. Scrive Daniela Brogi, in un fondamentale libro dedicato allo «spazio delle donne», che la «disinvolta omissione delle autrici non è un problema quantitativo, ma qualitativo». Stai zitta e altre nove frasi che non vogliamo sentire più: è un testo di Michela Murgia, dove ogni frase è un capolavoro. Basti qui ricordare la seguente: «il fatto che l’assenza delle donne non sia nemmeno percepita è la parte principale del problema». La questione, in concreto, è liberarsi da «male gaze» e recuperare la didattica dell’«otium». «Che cosa significa spiegare?», Maria Montessori si chiede nel 1933, e chiarisce che vuol dire decostruire ogni cosa: «aprendola quanto è più possibile». E, in un’altra conferenza dello stesso anno (entrambe da Paola Trabalzini pubblicate con il titolo Dante con i bambini), Montessori spiega, decostruendo il processo pedagogico, in che modo sia possibile che bambine e bambini, dai 10 ai 14 anni, giungano spontaneamente a conoscere a memoria, per intero, canti di Dante. Senza dover regredire all’infanzia, chi è docente resti discente: l’insegnamento della letteratura non deve più perpetuare gli stereotipi di genere a cui, consciamente o meno, lo si è ridotto. Urge «liberare i classici dallo sguardo maschile» secondo modalità suggerite da Jennifer Tamas in un libro del 2023 (Au ‘non’ des femmes). E pertanto, docenti e discenti, italiane e italiani, vi esorto ai commenti. Più che a quelli che già esistono (nel sito «Dartmouth Dante Project» è consultabile un’infinità di commenti danteschi), a prendere atto che non esiste ancora un commento alle opere (per fare un esempio a caso) di Lucrezia Marinella, benché accessibili online: dando spazio a sogni femminili come a sogni maschili, si accolga insieme, uomini e donne, docenti e discenti, l’invito di Simone de Beauvoir a cessare finalmente di sognare la propria vita attraverso sogni maschili.