RIflessioni su "Fuori" di Mario Martone - Le Cronache Spettacolo e Cultura
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RIflessioni su “Fuori” di Mario Martone

RIflessioni  su “Fuori” di Mario Martone

Mario Mele

All’inizio del mio lavoro come fotografo fui incaricato di realizzare un reportage nel carcere di Salerno. Ricordo con straziante nostalgia i canti che provenivano da dietro le grate della sezione femminile, lo scorrere strano del tempo in quel luogo sospeso, la cordialità inaspettata di molte persone nonostante la durezza della condizione. Quella sensazione del carcere non me la sono mai scrollata di dosso. È con questa memoria addosso che ho guardato Fuori di Mario Martone, e forse è per questo che la frase di Goliarda Sapienza – «Il carcere è come Fuori» – mi ha colpito con una forza particolare. Il genio di Martone sta nel riuscire a trasformare il carcere in metafora universale senza mai cadere nella retorica. Nel film, il carcere diventa un palcoscenico dove tutte le detenute sono simultaneamente attrici e spettatrici di un dramma collettivo, dove la perdita della dimensione privata si trasforma in un’eterna performance e, inevitabilmente, in un’eterna condanna. Siamo nella Roma del 1980, nell’estate della strage di Bologna. Il “tempo carcerario” di cui parla il regista è qualcosa di diverso dal tempo cronologico: è un tempo sospeso, dilatato, dove ogni attesa diventa eternità e ogni momento presente si carica di un peso esistenziale particolare. Un tempo che riflette anche quello dell’Italia di quegli anni, sospesa tra violenza politica e voglia di normalità. La storia degli anni di piombo non viene raccontata attraverso i grandi eventi, ma attraverso i loro riflessi nella vita quotidiana di donne ai margini. La Grande Storia emerge da un titolo di giornale ripiegato, da una parola buttata là da Roberta (“sotto processo per banda armata”), da un orologio che segna il 2 agosto. La Storia sembra essere fuori, ma è sempre dentro, come le protagoniste che anche quando escono dal carcere portano con sé l’esperienza della detenzione come chiave di lettura del mondo. Valeria Golino restituisce una Goliarda sfuggente e magnetica, capace di vagare per il film con la palpabile sensazione di una non appartenenza non solo al suo tempo, ma all’esistenza stessa. Matilda De Angelis, ruvida e luminosa allo stesso tempo, sembra incarnare Modesta, la protagonista de L’arte della gioia portata negli anni ’80: capace di tutto, indomita, attraente proprio per la sua natura ribelle che infrange ogni convenzione sociale. Il contributo di Ippolita di Majo alla sceneggiatura si sente nella cura con cui vengono trattati i rapporti tra le protagoniste, nella capacità di restituire quella dimensione di sorellanza che nasce dall’esperienza comune della marginalità. Il tono dorato che avvolge molte scene conferisce una dolcezza inaspettata a un ambiente per natura ostile. È in questa capacità di trovare bellezza anche negli spazi più difficili che si riconosce la mano di un grande regista e la bravura del direttore della fotografia Paolo Carnera, che con le sue “ottiche romantiche dai toni caldi” riesce a restituire l’atmosfera infuocata dell’estate romana. La sequenza nel bagno della profumeria, quando la luce illumina la doccia creando un gioco di volumi e ombre che richiama Kubrick, trasforma uno spazio quotidiano in teatro di tensione psicologica, dove ogni ambiente diventa metafora di una prigione più ampia. Il senso politico del film emerge prepotente nella sequenza finale: la vera Goliarda Sapienza che dibatte con Enzo Biagi viene trattata con sufficienza intellettuale da chi quella realtà non l’ha mai vissuta. È il ritratto devastante di un’Italia classista e superficiale che non sa riconoscere la propria cecità. Fuori arriva nel “picco della Sapienza fever”, ma Martone evita la trappola della mitizzazione, restituendoci invece una figura umana e complessa. Il film riesce nell’intento di interrogarci sui confini invisibili che delimitano la nostra libertà quotidiana, sulla forza rivoluzionaria delle relazioni autentiche. In un’epoca in cui il cinema spesso si limita a intrattenere, Martone continua a credere nella sua capacità di scavare nelle pieghe dell’esistenza umana per restituirci verità più profonde. Alla fine, la lezione più profonda del film di Martone è che, in fondo, siamo tutti dentro e tutti Fuori.