Di straordinari pianisti e fantastici strumentisti è piena la storia del jazz, ma solo pochi eletti possono essere definiti tout court dei caposcuola. Insieme a McCoy Tyner ed Herbie Hancock, ha costituito la sacra triade che, negli anni ’60 /’70, ha gettato le fondamenta del moderno piano jazz.
Di Gaspare Di Lieto
Quando un gran musicista vola in cielo c ‘è poco da raccontare che non sia stato già detto. Ma con Chick Corea c’è sempre qualcosa in più da annotare e su cui riflettere.
Di straordinari pianisti e fantastici strumentisti è piena la storia del jazz ma solo pochi eletti possono essere definiti tout court dei caposcuola , dei veri innovatori. Fra questi sicuramente è da annoverare Chick Corea che, insieme a McCoy Tyner ed Herbie Hancock, ha costituito la sacra triade che, negli anni ’60 /’ 70,ha gettato le fondamenta del moderno piano jazz. Ha partecipato ad ogni più svariata forma espressiva, dalle collaborazioni con maestri della musica latino americana come Willie Bobo e Mongo Santamaria dal cui influsso poi sortiranno alcune delle sue più famose composizioni, al progetto jazz fusion dei” Return to Forever”, alla collaborazione nella svolta elettrica di Miles Davis, all ‘elegantissimo e poetico duo con Gary Burton, al recupero della più pura tradizione bop nell’ omaggio al suo maestro Bud Powell, ai tanti progetti con orchestre di musica sinfonica, agli sconfinamenti nel mondo della musica classica come raffinato interprete di Mozart e Scriabin, ai trascinanti duo di pianoforti con il fraterno collega ed amico Herbie Hancock. Un eclettismo e una poliedricità che, se in tanti altri musicisti sono diventati elemento caratterizzante di enorme professionalità ma spesso anche di mancanza di una vera personalità artistica autonoma, con lui diventano espressione di un talento puro, genuinamente impossibilitato a restar confinato nel suo recinto. Ma in questa marea di esperienze c’è senza alcun dubbio un momento che si staglia altissimo su tutto , come una porta magica che apre a nuovi mondi sconosciuti. È il 1968 quando viene registrato “Now he sings, now he sobs”, un disco che modificherà radicalmente la concezione del piano trio. Un approccio decisamente rivoluzionario , con una concezione ritmica ribollente, moderna ma ossequiosa al contempo della grande tradizione, una scansione del tempo innovativa, una ricerca armonica che, pur attingendo a piene mani al contemporaneo filone “bianco” del grande Bill Evans, se ne discosta per una sua spiccata identità soprattutto ritmica.E sotto le sue mani anche le scale pentatoniche, gli accordi quartali, tutti i riferimenti così cari anche al grande McCoy Tyner, assumono una veste personalissima. Una vexata quaestio, presente da tempo immemorabile fra gli addetti ai lavori e gli appassionati di jazz, è se “nel jazz sia più importante cosa si suona o come lo si suona”.Un interrogativo che si scioglie come neve al sole quando Chick Corea ci aiuta a comprendere come i due aspetti siano intrinsecamente e indissolubilmente legati. Basterebbe ascoltare come la sua mano sinistra accenta i “voicings”,con una pronuncia che li fa sembrare esclamazioni vive di una antica lingua tribale,mentre con la destra tesse al contempo linee melodiche intricate e di una potenza percussiva inaudita, come se stesse colpendo i tasti con delle bacchette, e non accarezzandoli con le dita. La sublimazione del classico trio acustico per eccellenza che, paradossalmente, da vita ad un suono “elettrico” ed elettrizzante, dalla potenza di una turbina nucleare, di una modernità che avrebbe fatto la felicità dei nostri Futuristi. E poi la puntina scorre sul vinile finché arriva “Matrix”, il blues che sembra arrivare da un altro mondo, con la sua conturbante e misteriosa bellezza. Ed io, imberbe pianista adolescente,che spendevo i miei lunghissimi pomeriggi senza fine, cercando di comprendere come, dai tre accordi di un semplice blues, si potesse arrivare a tanta sofisticata magia.
Ma oggi , oltre alla figura del geniale pianista e compositore, è dolce anche conservare la memoria di un uomo dalla enorme disponibilità verso tutti, dotato di una grande umiltà e che ha lasciato un enorme sentimento di stima e gratitudine in chiunque lo abbia incontrato nel suo cammino terreno. In quest’ ultimo anno di isolamento forzato è rimasto più vicino che mai a tutti. Con la simpatia e il garbo usuali, chissà se già conscio del male che lo aveva colpito, nei collegamenti quasi quotidiani dal suo studio ha regalato musica, consigli e qualche risata a tutti noi chiusi nelle nostre case. Mi piace ora salutarlo, non ascoltando una delle sue tante famose registrazioni, ma guardando un breve video nel quale, con quella umiltà che è solo dei grandi, si cimenta con il suo prediletto Bach, cercando la giusta diteggiatura per una variazione Goldberg, come uno studente alle prime armi, senza timore di prendere qualche stecca.