Buon concorso di pubblico alla prima della rassegna del teatro contemporaneo alla Sala Pasolini, che ha ospitato Marco Baliani interprete di Corpo di Stato
Di GEMMA CRISCUOLI
Il corpo in pezzi di Peppino Impastato, nel tentativo di cancellare ogni sua memoria; il corpo di Moro nella Renault4 rossa, nel silenzio accecante dell’abbandono; e, in mezzo, una generazione che assiste alla morte dei propri sogni. Rievocazione dolente e sincera degli anni Settanta, “Corpo di Stato” di e con Marco Baliani per la regia e drammaturgia di Maria Maglietta, allestito presso la Sala Pasolini, si propone come narrazione aperta in cui dubbi, contraddizioni, paralisi e amarezze diventano la voce e le membra di un interprete che mette a nudo fino in fondo la propria fragilità. Entusiasta alla notizia del sequestro del capo della Democrazia Cristiana (a lui era legata la legge Reale, che permetteva di sparare ai posti di blocco) per il colpo al cuore del potere, il giovane Baliani viene ben presto tormentato dai dubbi: perché proprio Moro? Non erano i fascisti ad amare le armi? In quale momento tutto si è mutato in una guerra? Le immagini che scorrono alle sue spalle (i volti appassionati, le violenze della polizia, il sangue, il bisogno di condivisione)sono per il protagonista le tracce di un amore scomodo, alla cui perdita non sa rassegnarsi: quello per una società davvero capace di scrollarsi di dosso ogni prevaricazione, dove le parole non siano riti vuoti. La rigida impostazione ideologica dei collettivi e delle assemblee, l’identificazione incondizionata con una cultura riconoscibile, l’adesione alla clandestinità per “un salto di qualità” nella lotta sono tuttavia altrettante catene per chi, come Baliani, identifica comunismo e libertà. Tra scontri, amici perduti e un contesto che si preoccupa di colpire, ma non di capire, l’omicidio di Moro è una lapide sul desiderio di rinnovamento che brucia come le pagine di una vecchia agenda. Il passato, però, è un ostinato rumore di fondo; impossibile soffocarlo. Ciò che resiste di una giovinezza vissuta come una corsa sul posto è il teatro. Scacciato da un esponente di Potere operaio per un suo allestimento a Valle Giulia (distrazione imperdonabile dall’orizzonte rivoluzionario), Baliani non ha più smesso di fare l’attore. La discussione sterile con un compagno durante una recita per bambini è poca cosa rispetto alla gioia di salvare la messinscena con una briosa improvvisazione. Le ideologie possono divenire stanze blindate; sul palcoscenico la vita rifiorisce da se stessa. Solo lì i corpi non sono ridotti a cose, in attesa che qualcuno li sommerga di bugie.