di Erika Noschese
L’esame di maturità, da sempre crocevia fondamentale nel percorso di ogni studente italiano, quest’anno è stato teatro di episodi inattesi che hanno sollevato interrogativi e acceso il dibattito. In diverse località del Paese alcuni studenti hanno scelto forme di protesta estreme, rifiutandosi di sostenere la prova orale o addirittura non presentandosi all’appuntamento decisivo con la commissione. Un gesto forte, carico di significato, che impone una riflessione sulle motivazioni profonde di tale dissenso. Per fare chiarezza su quanto accaduto e sulle possibili implicazioni di questi gesti, abbiamo incontrato la dirigente scolastica del Liceo scientifico Statale “Francesco Severi” di Salerno, Barbara Figliolia, per comprendere la situazione dal punto di vista istituzionale ed educativo. L’obiettivo è analizzare le ragioni di queste proteste, le reazioni della scuola e le prospettive future di un dialogo necessario tra istituzioni e giovani.
Ci sono state iniziative di protesta, che lei sappia?
«Nella mia scuola no. Mi sembra che sia successo al nord, tra Firenze e Milano. Qui a Salerno, per quanto ne so, non è successo. Sono stata, tra l’altro, presidente di commissione d’esame sia a Torre Orsaia sia a Teggiano e qui queste cose non si sono verificate: sono persone educate e non penserebbero mai di comportarsi in modo simile. Firenze, invece, è terra di forti contestazioni. E io le apprezzo anche: è giusto che gli studenti facciano sentire la propria voce».
Ritiene giusta questa forma di protesta.
«Chiaramente non è così che bisogna fare, non presentandosi all’esame: ma così facendo si dimostra tutta la debolezza della maturità così com’è concepita e attuata. In questo modo fanno comprendere che anche facendo scena muta, lo studente può non essere bocciato, se si arriva a 60 o più. Sposo molto la tesi di Giannelli, della Anp, che dice che bisogna prevedere un numero minimo per poi obbligare il ragazzo all’orale. I ragazzi hanno dimostrato che, sedendosi davanti alla commissione o non presentandomi, non si può bocciare. Valditara vuole intervenire per rendere tutto obbligatorio, ma non è così che si aggiustano le cose. Sarebbe stato più giusto che i ragazzi preparassero una tesi o un loro percorso: sarebbero stati più originali. I percorsi scolastici sono sempre gli stessi: da noi c’erano 4 temi che i ragazzi avevano preparato, ma si ascoltavano sempre le stesse cose. Quando si andava fuori dal percorso, però, i ragazzi trovavano qualche difficoltà. Dobbiamo aiutare i ragazzi a sviluppare un pensiero critico. Il colloquio deve essere interdisciplinare, non una mera interrogazione. Dobbiamo abituare, su questo, anche i docenti che ancora sono abituati alle lezioni frontali».
Cosa proporrebbe?
«Perché non facciamo una tesi? Si presentano con un loro lavoro, creato da loro, sviluppato da loro, interdisciplinare. Eliminerei poi il Pcto e l’educazione civica, così come sono. Perché l’educazione civica non è una materia a sé stante, è interdisciplinare, quindi è all’interno del colloquio che si evince questa materia. Il Pcto si fa, vero, ma parlano tutti delle stese cose. Il tempo lo spenderei di più sulla conoscenza del ragazzo, per provare a tirare fuori il suo pensiero critico. Ad esempio, sono anche dell’avviso che il compito di matematica, o comunque la seconda prova in generale, i ragazzi lo facciano a casa e non in presenza».
Sarebbe un palese invito alla copia o all’aiuto.
«Un compito di matematica contiene tutto un programma, e un ragazzo non potrà mai apprendere tutto un programma. Discuterne il giorno dopo a scuola, all’esame, sarebbe molto più produttivo per poter poi comprendere se l’elaborato è farina del suo sacco o meno. È preferibile fare una farsa simile, dove i ragazzi copiano e via? Buttiamo giù le maschere, rendiamo l’esame più emozionante e vero agli occhi dei ragazzi. Il compito di italiano non si discute, deve esserci. La seconda prova ogni ragazzo la prepara a casa, poi si discute. Togliamo il Pcto, togliamo l’educazione civica e discutiamo sul resto».
Anche immaginando tali modifiche, il gap rispetto al resto d’Europa resterebbe ampissimo.
«Occorre, a mio avviso, un aggiornamento della formazione per docenti e dirigenti scolastici, obbligatoria. Ci sono docenti che non fanno più aggiornamenti né formazione, quella vera che si faceva un tempo, per fare lezioni attive, interattive. Siamo ancora alla lezione da cattedra, col libro in cui si indica di studiare da pagina X a pagina Y. I ragazzi non sono più quelli di una volta: hanno bisogno di una scuola rinnovata. Riempiamola di contenuti, diamo sostanza. L’impresa ce lo chiede continuamente, di diplomare i ragazzi validi con determinate competenze. Ho saputo anche di commissioni d’esame in cui i ragazzi non avevano finito il cosiddetto programma, non erano arrivati nemmeno alla Seconda guerra mondiale. C’è qualcosa che non va se non si riesce nemmeno a parlare della Guerra fredda. Alle conoscenze i ragazzi possono arrivarci tranquillamente: anche non studiando Pasolini, tramite i documenti ricevuti, i ragazzi riescono a sviluppare un testo. Insegniamo loro ad attingere alle informazioni, a saperle elaborare, a sviluppare questo pensiero critico che non tutti i ragazzi hanno dimostrato di avere. I ragazzi devono, all’esame, dimostrare la propria maturità, ma deve essere un colloquio e non un esame interdisciplinare».





