La notizia della scomparsa di Pino Daniele ci è giunta sul mare, all’alba del 5 gennaio. Ero sulla nave che mi avrebbe portato da Palermo a Salerno, una nave che da Napoli, tocca la Tunisia, Valencia e ritorna in quel centro del Mediterraneo, il cui canto e le musiche hanno sempre rappresentato per il suo popolo lo strumento maggiormente consono al suo animo per esprimere gioie e dolori e per dare maggiore carica emotiva ad un rito o ad un’occasione. La notizia si è diffusa all’alba su di una nave multietnica e la maggioranza ha avuto un pensiero per Pino Daniele, certo il maggiore fra i cantori della Napoli moderna, perché napoletane e moderne sono alcune delle sue canzoni più belle, cantate ancora oggi dai posteggiatori e fatte proprie da tutti i napoletani. L’operazione riuscita a Daniele è più di ogni altra straordinaria perché, pur contaminando e fondendo la melodia con rock, jazz e blues, è assolutamente presente in tutte le sue canzoni quell’originario Dna, che le fa riconoscere per tali, in una perfetta fusione di innovazione e tradizione. La stagione della canzone napoletana è sembrata tante volte esaurita. E invece quel misterioso e sfuggente Dna ogni tanto ricompare, nelle canzoni dimostra la vitalità di una tradizione inesauribile, ed ecco che fra un’antica villanella di Velardiniello e la canzone di Pino Daniele passano più di quattrocento anni eppure, se provate a canticchiare o ad accennare al pianoforte, magari con un dito solo, qualche frase di Boccuccia de no pierzeco apreturo (1537) e di seguito qualcuna di Napule è (1977) vi accorgerete che hanno la stessa matrice, che sono figlie della stessa madre. La poesia dei canti di Pino Daniele racconta di “mali antichi”, ancora oggi presenti in altre forme o che potrebbero ritornare: l’arroganza sicura dei potenti e la riverenza timorosa dei “sottomessi”, la subalternità della donna e il senso di supremazia dell’uomo, gli “strappi” provocati delle partenze di lavoro, i divieti sociali imposti alla libertà di amare, il malessere interiore di cui nessuno si accorge, le violenze e le ingiustizie taciute, quei tipi di lavoro che “consumano” il corpo e lo spirito, la paura di un futuro con magre prospettive o il grigio senso di rassegnazione. Questo ed altro fa parte della storia collettiva e dei vissuti individuali raccontati in musica e poesia dai canti tradizionali i quali, tuttavia, sono portatori anche di un ricco patrimonio di “bellezza”: il fascino della melodia, la capacità di improvvisazione, la “libertà” di “rivestire di sé” un canto, la capacità di creare e usare metafore profonde e sorprendenti, l’originalità di melodie uniche, la forza del sentimento “vero” contro ogni divieto “artificioso”, il senso di ribellione alle ingiustizie, l’umorismo con cui affrontare le peripezie della vita. Un amore particolare che abbiamo ritroviamo un po’ in tutti i brani del viaggio di Pino Daniele tra i diversi e comuni linguaggi del mare nostrum, un fluxus musicale ossessivo e mistico spaziante dall’Africa, all’oriente, a Napoli, dai colori caldi e avvolgenti, specchio del suo “contaminato” sentire interiore. Dall’approdo al gruppo di Napoli centrale nel 1976, anno anche del suo primo 45 giri, Che calore. Poi, Terra mia, con Napule è, e Na tazzulella ‘e cafè, il grande successo nel 1980 di Nero a metà, ripreso in questi ultimi tempi, che ha salutato la grande reunion con il nero del sax, James Senese, Gigi De Rienzo, Agostino Marangolo, Ernesto Vitolo, Rosario Jermano, Tony Esposito, Joe Amoruso, anche Tullio De Piscopo, con al suo interno “Quanno chiove” e “A me me piace ‘o blues”, “Non calpestare i fiori nel deserto” (1995) che conteneva hits come “Io per lei” e “Se mi vuoi“, “Medina” (2000), il primo progetto con la grande major BMG che “Sara“, dedicata alla figlia, e “Mareluna“ e, sempre per ciò che concerne il territorio “inediti”, l’ultima fatica “La Grande Madre” (2012) che aveva al suo interno “Wonderful Tonight”: diversi generi, che tendono ad evolvere in modo originale ciò che è il sentire mediterraneo, con canti e musiche di propria composizione, riconoscendo Napoli quale crogiuolo e incrocio di tutte le culture musicali, un consesso universale all’ombra del Vesuvio, che come una carta porosa, mira ad unire in musica quello che nella vita di tutti i giorni è tragicamente disunito.
Olga Chieffi