«Zio Enzo era un moto perpetuo. Dovunque ha “messo le mani” si è distinto, ha lasciato il suo segno indelebile. Oggi, appresa la notizia della sua scomparsa, molta gente è rimasta senza parole. Non ha creduto alla possibilità che uno “spirito indomito” come il suo possa averci lasciato».
Peppe Natella, “anima” del Teatro dei Barbuti ricorda così Vincenzo De Angelis, scomparso l’altro ieri all’età di 78 anni. Ieri, a Cappelle, i funerali. Tanti amici, commossi, gli hanno reso omaggio. Molti altri, increduli, hanno appreso della notizia della morte dagli amici comuni e dai parenti.
«Ero il suo primo nipote – ricorda Natella – e forse anche il suo “prediletto”. Mi ha sempre apprezzato, spronato. E qualche volta abbiamo anche litigato – commenta sorridendo – ma proprio perché quando c’è grande affetto le divergenze fanno parte del gioco. Lui mi ha visto crescere e io l’ho, per certi versi, l’ho visto crescere. Abbiamo vissuto insieme, da giovani, nella stessa grande casa: ognuno di noi metteva a disposizione degli altri il proprio talento, le proprie capacità».
Il suo racconto passa subito alla passione calcistica, altro punto comune.
«Da lui ho ereditato, insieme a mio fratello Rosario (conosciuto a Salerno come “ciuacione”, scomparso qualche anno fa, ndr) la passione per il calcio. Zio Enzo giocava in porta, passò anche al Manfredonia prima di intraprendere la carriera nella Polizia. Entrò nella “Celere” a Catania dopo aver vinto il concorso. E così ci perdemmo di vista per qualche anno ma solo fisicamente. Apprezzava la mia “sregolatezza”, il fatto che frequentassi l’accademia di Belle arti. Tornò a Salerno dopo aver vinto il concorso alla Olivetti e riuscì, così a “seguirci” da vicino. E a difenderci. Seguiva i nostri allenamenti: io ero terzino e Rosario portiere dei Nagc della Salernitana. Non voleva che si parlasse male dei suoi nipoti perché “giocavamo bene”, ripeteva sempre. Fu proprio lui, però, insieme a papà, a chiedermi di trasferirmi a Napoli per studiare seriamente. E abbandonai la carriera calcistica».
Il teatro è l’altra grande passione che ha ereditato e coltivato insieme a De Angelis.
«Sin dal 1965 – ricorda – insieme a don Giovanni Toriello animammo la comunità parrocchiale del Duomo di Salerno. Siamo stati, nel bene e nel male, sempre presenti, divenendo un vero e proprio punto di riferimento in un periodo di totale assenza di iniziative. Negli anni ’70 zio Enzo formò il primo gruppo teatrale del quale, oltre a me e mio fratello, facevano parte l’attuale sovrintendente Rino Miccio, i gemelli Caggiano, Corradino Pellecchia, Matteo Ruggiero e tanti altri. Eravamo lì a “fare danni” – continua – insieme a zio Enzo e al suo “sacro fuoco”. Ma creavamo belle cose».
Ricordi particolari?
«Facevamo teatro ma non solo: ricordo i giochi intersociali con tutti i circoli delle parrocchie salernitane. Anche lì zio Enzo era un vero e proprio “capopopolo”, era il nostro direttore sportivo e coordinava tutte le attività. Ma non si fermava a questo. Zio Enzo si dilettava anche di pittura. La sua casa è piena zeppa di disegni e dipinti. Ma il teatro era il suo vero amore. Formammo la compagnia il Teatrangolo e divenimmo punto di riferimento. Organizzavamo spettacoli “collaterali” durante la festa di san Matteo. Riempivamo il cartellone nel quale svettavano i “grandi”. Dal Teatrangolo nacque, poi, la Bottega san Lazzaro. Zio Enzo recitò a uno dei primi spettacoli del Teatro dei Barbuti: era il 1983. Credeva in quello che faceva, metteva attenzione e scrupolo. Fu subito notato e di lì a poco fece “compagnia” con Sandro Nisivoccia e Regina Senatore».
Le strade, quindi, si divisero nuovamente.
«Sì, faceva teatro a tempo pieno e ci perdemmo un po’ di vista. Don Giovanni Toriello, in effetti, fu molto dispiaciuto della sua “assenza”. Ma gli spiegammo che era impegnato in una “cosa seria”. Qualche anno dopo lo chiamò il maestro Carotenuto, lo volle tra le sagome dipinte del suo presepe e lo affiancò alla “castagnara”. Un personaggio tradizionale, bello, sanguigno. Proprio come lui».
Tante esperienze prima del ritorno alla “Bottega”.
«Fu un ritorno “in grande stile” – continua Natella – e facemmo di nuovo “compagnia” insieme. Allestimmo con il suo aiuto un piccolo teatrino nella Sala san Tommaso e mettemmo in piedi un sacco di spettacoli, dal teatro napoletano alle “cose serie”. Inutile dire che si distingueva in modo incredibile in qualsiasi ruolo. Purtroppo la malattia iniziò a colpirlo. Ricordo che una sera, mentre eravamo in sala a provare, si sentì particolarmente stanco. Il giorno seguente mia sorella mi informò del principio d’infarto e del ricovero. Il colpo lo minò al punto da portarlo a ridurre di molto l’attività. Si ritagliò un nuovo ruolo nella sua nuova parrocchia, quella di san Giovanni a Cappelle. Si era quasi del tutto “ritirato” con la famiglia ma non disdegnava il suo “giro” dagli amici, per parlare della Salernitana, salutare le persone care. E’ stato un grande punto di riferimento – conclude Natella – e a Salerno, oggi che si pensa solo alle grandi rassegne, alle grandi cose, spero si ricordino di una persona importante come lui».