Salvatore Memoli
Ho visto tante storie di vite umane chiudersi, spegnersi tra tanto rimpianto ufficiale di tutti, seguite da una rimozione subitanea, senza ritegno, della loro memoria e del bene fatto. Salerno è così, un poco algida, da vecchia signora altezzosa, preoccupata che qualcuno possa offendere il suo vanto, senza considerare il crepuscolo che avanza inesorabilmente. Nella mia vita ho avuto modo di conoscere tante personalità meritevoli di apprezzamenti per la loro arte e la loro vita. Tanti illustri salernitani che dopo la morte sono passati sotto silenzio. Ho visto gente piangere, rammaricarsi, ricordare i meriti degli scomparsi, perfino nella massima assise civica, il Consiglio Comunale, il ricordo fatto é stato toccante, completo, autorevole, seguito da minuti di silenzio. Passato un poco di tempo, nessuno ricordava niente e il ricordo sofferto si trasformava in routine! Giusto e forse anche normale pensare alla vita, guardando oltre! La morte di Lelio Schiavone segue la sorte di altri illustri cittadini, molti dei quali erano suoi sodali, di quel salotto eccezionale e fecondo che è stato il Catalogo. Non un’associazione qualsiasi, un salotto di cultura che dal dopo guerra ha riunito le intelligenze di Salerno, le ha fatte incontrare, le ha messe in relazione con l’Italia delle arti, con i circoli di artisti che avevano una loro bandierina di riconoscimento a Salerno. Per gli artisti che entravano nel territorio culturale salernitano e che permettevano ai nostri artisti di essere accolti e celebrati in tutta l’Italia, il Catalogo è stato passe-partout raffinato. Se qualcuno non me vuole, soprattutto per raggiungere quella Milano colta, dotta e tanto piena del sapere che avvalorava le arti degli ospiti, accogliendoli con piena disponibilità e meriti! Nel salotto di Schiavone i bagliori di un’avanguardia di pittori hanno ricevuto la benedizione di artisti, poeti e scrittori di vaglia che, ben accolti, sapevano rispondere con altrettanta apertura di circuiti e crediti. Il Catalogo era un circolo di intellettuali iscritti ad una sinistra sociale che talvolta si caratterizzava con albagia e piccata iattanza. Non era da tutti avvicinarsi. Era un circolo geloso delle sue benemerenze e che, talvolta, non riconosceva chi ne rimaneva ai margini. Prevalevano le referenze dei quotati e il patronage di chi viveva dentro. Si conoscevano tra di loro, correggevano i loro limiti e generavano cordate di persone condivise. Ho conosciuto il Catalogo negli anni ’80, per una mostra e ne fui in qualche modo presentato da Mario Carotenuto. Con Mario c’era affinità culturale, ancor prima di avvicinarsi al Duomo per dare vita a quella straordinaria avventura culturale, pittorica, sociale, di quel neorealismo romantico che fece debuttare l’artista come colui che amava il presepe. Lo amava tanto da riprodurlo su tavole di compensato ad altezza d’uomo, con volti amici, di conoscenti, personaggi importanti che si mescolavano al realismo di presenze locali, scavate dalla vita e spinte da una trazione interiore che apriva mondi sconosciuti. A Mario chiedevo di Alfonso Gatto, delle loro giornate salernitane, quando la letteratura albeggiante si confondeva con le giornate irrituali di amici al Vicolo della Neve, nelle strade del Centro Storico, nelle case che accendevano di colore artistico le riunioni di amici senza pretese. Da ragazzo ero un divoratore di libri e tra tutti dopo L’amante di Lady Chatterley di Lawrence e tanti romanzi di Maugham che mi spaziavano nel risveglio europeo, mi ero appassionato ad uno scrittore italiano Michele Prisco che mi proiettava nel Cilento, pieno di misteri e di slanci rigeneranti, soprattutto con il romanzo Gli ermellini neri (1950), dopo aver divorato La Provincia addormentata (1949), suggeriti dal mio professore d’Italiano al liceo. Libri letti e riletti, con personaggi nei quali mi identificavo. Quando Michele Prisco passò al Catalogo, perchè non tentare di conoscerlo ed attirare le sue benevolenze?! Missione compiuta con gli aiuti di Mario Carotenuto e Lelio Schiavone. L’occasione permetteva ad un parvenu come me di farsi accettare poco alla volta da un salotto colto di Salerno che, pur con tanti adepti di cartello, pose al sottoscritto, giovane consigliere comunale, la domanda maliziosa se la politica arrivava a capire che a Salerno mancava un Museo di arte ( moderna) contemporanea. A me spiegavano che molti buoni artisti sarebbero scomparsi e la loro arte dimenticata. Una riflessione che volli approfondire consapevole del gran numero di pittori e poeti, scrittori, ceramisti ecc. che hanno parlato e testimoniato l’arte per oltre mezzo secolo. Oggi, Salerno deve completare il percorso espositivo delle arti figurative, tenendo presente il grande patrimonio presente a Salerno, con l’aiuto di qualificati critici ed esperti salernitani di arte. Sono certo, a cominciare da me, che molti artisti e collezionisti sarebbero pronti a donare molte opere. Ne nascerebbero più percorsi e sezioni che riempirebbero le grandi sale da aprire ai visitatori. Quale location migliore del Palazzo di Giustizia dismesso, un elegante sito che accoglierebbe molte opere e molte idee. Ci potrebbe essere migliore nome da dargli del nome e cognome di un grande Salernitano come Alfonso Gatto?! Un salernitano che raccoglieva intorno a sé tutto il patrimonio dell’arte e i pensatori che hanno dato basi di cultura, di intellettualità a Salerno. Il mio auspicio é che senza primogeniture molti amici vorranno approfondire e sostenere l’idea del Museo di arte Contemporanea che completa il percorso dell’arte moderna, accogliendo quello che manca alla Pinacoteca Provinciale ed anzi integrandosi nella stessa location, per una grande e organica proposta unica al visitatore.





