Lorenzo Forte: Il sogno deluchiano non esiste più - Le Cronache
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Lorenzo Forte: Il sogno deluchiano non esiste più

Lorenzo Forte: Il sogno deluchiano non esiste più

di Matteo Gallo

«Il ‘sogno deluchiano’ che aveva caratterizzato la vittoriosa campagna elettorale del 1993 e il suo primo sindacato, che io stesso allora avevo sostenuto con entusiasmo, non esiste più. Al suo posto, da più di vent’anni, c’è un sistema di potere senza alcuna visione progettuale della città impegnato esclusivamente a tenere in vita se stesso».  Lorenzo Forte non si nasconde dietro un dito né tanto meno tira indietro quello stesso dito.  Quarantotto anni, da sempre in trincea con cuore testa e corpo a sinistra del campo di battaglia, già presidente della commissione Cultura al Comune di Salerno e oggi animatore del comitato Salute e Vita, affonda l’indice di una appassionata riflessione a voce alta nelle piaghe dell’attualità politica.  Sulla scrivania di un lungo e articolato ragionamento capovolge la clessidra del tempo per mettere il capoverso alla stagione immediatamente successiva a Tangentopoli, destinata a segnare l’inizio della Seconda Repubblica italiana ma anche del governo monocolore dell’attuale presidente della Regione Campania. «In quegli anni -racconta Forte-  da segretario della sinistra giovanile ho vissuto da protagonista, insieme a tantissimi amici e compagni di partito, la prima campagna elettorale di Vincenzo De Luca alla guida del Comune.  Avevamo tutti grandi attese per il suo progetto di cambiamento radicale e complessivo della città. Un obiettivo che  aveva dimostrato di voler fortemente realizzare ‘insieme’ ai cittadini. Per noi giovani di sinistra fu una svolta. Un sogno a occhi aperti. Un grande sogno collettivo».
La “stagione dei sindaci”, inaugurata proprio in quella tornata elettorale, conferiva a De Luca il potere di marciare spedito verso la realizzazione del suo progetto-Salerno evitando le secche del consiglio comunale e le trappole dei partiti.  
«L’elezione diretta del sindaco non dava solo  più poteri a quest’ultimo ma faceva sentire protagonisti i cittadini che, attraverso il voto, vivevano per la prima volta la sensazione concreta di concorrere, come mai prima di allora, alla costruzione del destino della propria città. Una premessa fondamentale che ognuno di noi ha vissuto in quella fase storica come una ulteriore decisiva svolta per fare di Salerno una realtà in cui tutti si sentissero realmente protagonisti».
Tutti protagonisti tranne i partiti: al loro posto l’uomo forte al comando.
«Dopo le inchieste di Tangentopoli che avevano messo in luce un sistema diffuso di immoralità e illegalità coinvolgendo in particolare i due principali partiti italiani, il Psi e la Dc, essere al di là dei partiti aveva una connotazione positiva. Lo dico da uomo che si è formato nei partiti e che ancora oggi crede convintamente nella loro centralità in politica. Ma in quel momento era così».
Primo sindacato di De Luca: quale il suo giudizio?
«Durante quella prima consiliatura l’azione amministrativa fu significativa e incisiva. De Luca si dimostrò capace di dare all’esterno, all’intera cittadinanza e ben oltre i confini urbani, non solo l’immagine ma anche la rappresentazione concreta di una realtà in pieno sviluppo e fermento.  Certo,  molti dei progetti appartenevano alla giunta Giordano ma bisogna dire che quei progetti furono avviati e in parte realizzati. E poi ne vennero anche messi in cantiere degli altri. Il cambiamento della città era evidente e veniva vissuto come entusiastica esperienza di realtà da parte dei salernitani che si sentivano protagonisti del nuovo corso. Purtroppo quello stato di grazia avrà vita breve.  Il patto che De Luca aveva fatto con i cittadini, con tutte le parti sociali ricercando tra l’altro il necessario equilibrio tra gli interessi economici degli imprenditori e quelli delle famiglie che chiedevano più servizi e qualità della vita,  è stato tradito nel 1997».
Cosa accadde?
«La presentazione della bozza del Piano regolatore generale firmato dall’architetto catalano Oriol Bohigas. Un appuntamento di straordinaria rilevanza per la città perché il prestigioso professionista aveva già trasformato sul piano urbanistico Barcellona e si apprestava a fare lo stesso con Salerno. In un gremito salone del Marmi De Luca, nel corso di quell’incontro pubblico, si lasciò andare a una singolare affermazione: «Imprenditori arricchitevi!». Quella frase non rappresentava solo una esigenza di sintesi comunicativa con cui colpire nel segno. Tutt’altro. Aveva in sé una precisa logica d’azione: trasformare uno strumento per lo sviluppo a trecentosessanta gradi della città in un “mercato” a favore di pochi imprenditori; e io aggiungo i peggiori imprenditori. Le sue parole d’altronde saranno profetiche: da quel momento in poi la città verrà progressivamente e inesorabilmente svenduta a pezzi.  Sul piano simbolico, e non solo, quell’episodio scrive la parola fine sul ‘sogno deluchiano’ della prima ora».
Dal sogno deluchiano a…
«Al sistema di potere deluchiano. Per me quella frase di De Luca si collega alla scelta successiva di procedere per varianti urbanistiche al vecchio piano senza approvare quello di Bohigas che ormai era finito. Le varianti anticiperanno il nuovo piano regolatore stravolgendolo. Al di là delle ragioni tecniche addotte a sostegno di quella pratica amministrativa, le varianti sono state funzionali all’apertura di una corsia di dialogo preferenziale tra politica e singoli privati a differenza, invece, del Piano regolatore generale che  avrebbe assicurato regole uguali per tutti con tutte le necessarie garanzie e tutele del caso».
Quali, secondo lei, gli errori principali commessi da De Luca da quel momento in poi?    
«L’eliminazione del contraddittorio interno che è avvenuta  sostanzialmente in due modi. Marginalizzando e delegittimando fino alla irrilevanza politica quanti la pensavano in maniera differente da lui. Inglobando nel suo sistema di potere i dissenzienti rendendoli silenti e soprattutto allineati. Il confronto, da sempre sinonimo di crescita e arricchimento, è stato azzerato a favore della proliferazione di ‘yesman’. Tutto questo ha impoverito la visione progettuale per Salerno fino alla sua desertificazione, trasformando l’abbraccio amministrativo nei confronti dell’intera città nella tutela degli interessi del cerchio magico degli amici degli amici. E non solo».
A cosa si riferisce?
«La volontà di eliminare il contraddittorio ha prodotto come risultato la riduzione della cultura a mero market degli spettacoli. Non è un caso che nelle giunte comunali dal 1993 in poi non vi sia mai stato un vero assessore alla Cultura, eccezione fatta per l’illustre professore Pino Cantillo, in carica durante il primo sindacato di De Luca che si dimetterà dopo pochi mesi proprio a causa delle divergenze con il primo cittadino».
La cultura come strumento di consenso elettorale?
«Assolutamente sì, e lo stesso vale per il lavoro.  Attraverso le assunzioni nelle cooperative e nelle società miste è stato costruito un sistema clientelare che si mobilita in occasione delle competizioni elettorali per ragioni di sopravvivenza. Gli impieghi a scadenza, infatti, vincolano i lavoratori al tuo destino elettorale».
Da uomo di sinistra (e comunista) cosa si aspettava dalle amministrazioni guidate da De Luca in quel decennio di grandi cambiamenti e maggiori poteri ai vertici degli enti locali?
«Pensavo che la città di Salerno si sarebbe sviluppata sul modello delle realtà virtuose dell’Emilia Romagna, come ad esempio Modena e soprattutto Bologna, quest’ultima ripartita proprio attraverso il recupero del centro storico. Città aperte, inclusive, nelle quali la partecipazione dei cittadini alla vita pubblica è principio “costituzionale”».
Cosa sarà determinante per la sua formazione politica?  
«La vicinanza alla sinistra e al partito comunista, che sul piano della militanza si consoliderà negli anni Novanta, non nasce da una questione ideologica ma da un’esigenza di vita.  Con la mia famiglia sono stato tra le “vittime” del terremoto del 1980, a causa del quale ci ritrovammo senza casa. Eravamo otto figli. Da allora ha avuto inizio un vero e proprio calvario, un percorso a ostacoli che stravolgerà la nostra esistenza e che mi porterà per il resto della mia vita alla costante ricerca di giustizia sociale. Dalla prima alla quinta elementare  ho abitato nella stessa scuola, la Giacomo Costa, che frequentavo come alunno. Abitavo con la mia famiglia in un’ala della scuola e andavo a lezione nell’altra. Fu allora che mi resi conto dell’incidenza della cattiva politica sulla vita delle persone. In quel periodo gli unici politici che mostrarono un reale interesse verso la nostra situazione furono quelli del partito comunista. Questa cosa mi colpì a tal punto che dissi a me stesso: da grande voglio essere un comunista!»
Lo è ancora?
«Oggi sono un comunista orfano del partito comunista».
Cosa significa per lei fare politica?  
«Sacrificio. Impegno tra e per la gente. Corpo a corpo sui territori con i problemi delle persone. Risposte concrete alla comunità. Ai tempi del liceo raccolsi cinquemila firme insieme a un mio coetaneo,  Rosario Peduto, con il quale condividevo la stessa passione politica ma non lo stesso partito. Io di sinistra, lui democristiano di destra.  Era crollata la strada che al rione Calenda portava all’ospedale da Procida. Da anni la situazione non si sbloccava. Una vergogna. Inoltre, quando frequentavo la federazione giovanile del Pci, per prima cosa  mi insegnarono a fabbricare’ la colla per attaccare i manifesti e poi ad arrotolarli. Fare politica per me significa ancora tutto questo».
Di cosa ha bisogno oggi Salerno per recuperare lo spirito e lo slancio politico, amministrativo e civico dei primi anni Novanta?
«Tutte le persone che in questi quasi trent’anni hanno scelto, per ragioni di moralità e libertà, di non fare parte del sistema di potere deluchiano sono chiamate a unire le forze per sottoscrivere con la cittadinanza un patto d’amore per Salerno. C’è bisogno di un nuovo grande ‘sogno collettivo’ che si concretizzi nella proposta di un impegno civico e politico a favore dei beni comuni, del bene comune e della crescita dell’intera comunità sulla base di uno spirito prima di tutto inclusivo e solidale».