di Gemma Criscuoli
La mucca con tanto di cappello e smoking, che troneggia accanto al leggio, ricorda il prezioso dono del silenzio, ma non si può sfuggire alla parola, “l’arma micidiale che è facile puntare contro se stessi”. Michele Serra riflette sul proprio percorso e sui tempi bislacchi in cui viviamo con “L’amaca di domani”, lo spettacolo diretto da Andrea Renzi accolto calorosamente presso la Sala Pasolini. Il video, che, alle sue spalle, proietta nuvole rassicuranti e lettere che creano forme sempre diverse, vuole comunicare, per amore di contrasto, la pacata leggerezza che uno scrittore desidera, ma non ottiene certo facilmente. Dopo aver pubblicato novemila opinioni ogni giorno per trent’anni, Serra sa perfettamente che le parole sono “potenti, faticose, ingannevoli”, che a volte ricordano sacchi vuoti, altre volte fanno pensare a esseri viventi, che pubblicare significa infastidire moltissime persone, magari generando quell’ansia da prestazione che spinge ancora oggi l’autore dell’ “Amaca” a immaginare di essere stato convocato, a oltre sessant’anni, nelle file dell’Inter. Eppure la verità è una sola : “La parola è l’attrezzo che ci distingue dalle bestie e da Dio, che non parla. “In principio era il verbo” l’ha detto l’uomo e il verbo siamo noi, tanto che sbagliamo i congiuntivi”. Inchiostro o pixel, poco importa. Il compito non cambia : “catturare il suono delle parole e restituirlo agli altri, senza sbagliare nomi di persone o cose”. Nel ripercorrere la sua carriera per narrare quanto scrivere sia essenziale e non di rado compromettente, si tiene ben lontano dalla spocchia, “ottimo generatore di opinioni”. Dalla Remington del nonno agli esordi come dimafonista a ventun’anni a “L’Unità”, quando raccoglieva informazioni di ogni tipo per la redazione, dai necrologi ai cinema di Ravenna, e scrivere correttamente i nomi dei ciclisti della Parigi -Roubaix era impresa al cui confronto scrivere editoriali sul futuro del Partito Democratico è una bazzecola, al giornale satirico Cuore, alla collaborazione con ”Repubblica”, Serra mette in guardia dal senso del ridicolo (“guai a non portarselo appresso) e dal rischio di ripetersi, anche se è la storia a farlo con ottusa tenacia. Un suo intervento del 4 gennaio 1998, in cui i migranti sono solo un ingombro agli occhi dell’Europa, potrebbe essere stato scritto ieri. Le memorie dello scrittore non sono innocuo resoconto, ma critica serrata a comportamenti ormai sdoganati (“Se mi fosse bastato vivere nel privilegio, sarei cresciuto serenamente di destra : dev’essere bellissimo”). Oggi, mentre “la sinistra ha perso, o meglio, ha smesso di combattere”, l’ignoranza identitaria attaccherebbe Gramsci, per il quale l’educazione dei proletari era un problema di libertà. “Molti padroni hanno lo sguardo del servo, perché gli bastano cento parole”. La dignità di chi prendeva la parola a un’assemblea, scusandosi per il suo linguaggio, dato che aveva frequentato solo la quinta elementare, e mostrava così una consapevolezza che ogni intellettuale dovrebbe avere, sarebbe oggi impensabile. In un contesto che rende tutto superfluo, gli esseri umani devono almeno “dare al mondo una parola che dopo di noi non ci sarà più”. Senza dimenticare l’importanza della sintesi, per dirla con Voltaire : “Scusami se ti ho mandato una lettera di dieci pagine, ma non ho avuto il tempo di scriverti dieci righe”.