Stasera, alle ore 21, ritorna dopo tre anni il capolavoro pucciniano, per la regia di Michele Sorrentino Mangini e sul podio la bacchetta caravaggesca di Daniel Oren
Di OLGA CHIEFFI
“Questa musica la può scrivere Dio e poi io” dice da buon toscano, incline alla rima e alla bestemmia Giacomo Puccini, della sua Tosca. La teatralità artificiosa e il male quale “forza propriamente demoniaca, esterna, nemica e soddisfatta di sé”, come scriveva Fedele D’Amico, firmano la modernità di quest’opera, di cui Scarpia, che avrà la voce di Sergey Murzev, è mostruosa incarnazione e la vicenda è pretestuoso emblema. Il fascino di Tosca, torna da stasera al 29 maggio sul palcoscenico del teatro Verdi di Salerno, per la regia di Michele Sorrentino Mangini, e la bacchetta caravaggesca di Daniel Oren, che si porrà alla testa dell’Orchestra Filarmonica Salernitana. Tosca è un’opera per nulla tradizionale, nonostante il triangolo baritono rivale-tenore amante-soprano, eroina comune a tutto il melodramma d’Ottocento, anche se nuovo in sé e rispetto a quanto Puccini aveva scritto sino ad allora. In Tosca, l’amore angelicato e sacrificale di Verdi diventa erotismo senza più motivazioni morali. E’ un eros che si effonde in beata pienezza e che, pago di sé. Si esaurisce, per poi riprendere nuova lena. E’ Tosca “opera d’azione”, rinserrata dalle unità di tempo e di luogo, con il suo “tempo discontinuo” simbolo del XX secolo, dalle tinte plumbee, gli ottoni laceranti, la furia del declamato. Un timbro sinistro, che sarà schizzato dall’ Orchestra Filarmonica Salernitana diretta da Daniel Oren, torna con insistenza, sulle tessiture estreme, livide, con inquietanti zone vuote al centro, con un uso molto frequente dei contrabbassi che è stato ricondotto all’influsso del quarto atto di Otello. Improvvise accensioni rompono di prepotenza il discorso musicale, mentre l’azione diventa parossisticamente contratta per cui i cinque atti originari s’addensano in tre, la cui durata stringe dal primo all’ultimo, incalzando serratamente. Un’opera che oscilla di continuo fra azione e riflessione lirica, che sostituiscono e rinnovano definitivamente la vecchia alternanza operistica di recitativo ed aria. Alternanza di cui è perno ed emblema il duetto d’amore del primo Atto, ossia la pagina con cui Tosca, che per questa produzione salernitana sarà Maria Josè Siri, si presenta e interagisce col suo Mario (Gustavo Porta) duetto lirico, ma con molti e forti cambiamenti di carattere, secondo la strategica multivalenza del personaggio. Allo stesso modo, nel secondo atto, lo squarcio cantabile del “Vissi d’arte” interrompe e precede le scene più movimentate. Il “Vissi d’arte”, che ha l’effetto di un lamento-preghiera, è quello di dilatare il tempo psicologico, come se davanti agli occhi di Tosca passasse in pochi istanti tutta la sua vita. La modernità dell’opera è che la vicenda di Tosca rimane legata alla città in cui si svolge il dramma è perché dietro a quelle vestigia e a quei sentieri «odorosi di timo» c’è una storia plurimillenaria di esercizio temporale del potere da parte dei papi che non ha riscontri in altri luoghi del mondo: per un uomo di teatro qual era Puccini non vi poteva essere occasione più ghiotta per trasmettere un messaggio di portata universale al proprio pubblico. Tra i fumi degli incensi processionali, nelle pieghe della devozione di facciata in ispregio all’autentica fede, è proprio quel potere, barbaramente esercitato a scapito di legittime aspirazioni alla libertà, che condiziona le sorti dei protagonisti, Tosca e Cavaradossi burattini, nelle mani del barone. Ma resta fuor di dubbio che la Roma papalina ai primi dell’Ottocento sia un elemento basilare della trama di Tosca, e che il barone Scarpia ne incarni l’immagine all’interno della costellazione dei personaggi. Con questi elementi Puccini riuscì a fissare un ritratto indelebile di quel mondo bigotto e corrotto. Ogni data e ogni situazione, grazie alla fantasia di Sardou che le aveva poste in fertile relazione, si propongono come momento credibile del passato rivissuto artisticamente, senza che ciò limiti la ben superiore grandezza del lavoro di Puccini, che risiede nell’aver saputo sfruttare questo impianto drammatico per arricchire la narrazione, oltrepassando gli angusti limiti di una recita teatrale e di un tempo rigidamente determinato. Un esito artistico con apprezzabili risvolti etici che, come si può agevolmente constatare, scorrendo la storia italiana, sino ai nostri giorni, non ha ancora perso la sua imbarazzante attualità.