Il tema del femminicidio è, purtroppo, tornato negli ultimi giorni di grandissima attualità, dopo l’omicidio di Giulia Cecchettin.
Avvocato Michele Sirica, da esperto penalista, ci può chiarire giuridicamente cos’è il femminicidio?
Se nel linguaggio comune per “femminicidio” intendiamo correttamente “uccisione di una donna”, sotto il profilo legislativo bisogna innanzitutto chiarire che il codice penale non punisce il “reato di femminicidio”, ma il reato di omicidio, cioè non esiste nel nostro codice penale il reato autonomo di femminicidio. All’art. 575, infatti, il codice penale punisce il solo reato di omicidio, prevedendo la pena non inferiore a ventuno anni di reclusione, salva l’applicazione di aggravanti comuni che possono comportare un innalzamento della pena ed aggravanti speciali, previste dal successivo art. 576 c.p., le quali, quest’ultime, se riconosciute, possono condurre all’applicazione della pena massima dell’ergastolo. Ciò significa che secondo la legge, sostanzialmente, uccidere un uomo o una donna non fa differenza perché altrimenti si determinerebbe inevitabilmente una discriminazione di genere che contrasterebbe con il principio di uguaglianza, scolpito dall’art. 3 della Costituzione, secondo cui « Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali ». Sulla stessa scia, aggiungo che sarebbe incostituzionale anche la previsione di aggravanti specifiche, nell’ipotesi in cui il soggetto ucciso sia di sesso femminile.
Avvocato, quali sono gli interventi del legislatore per prevenire questo dilagante e allarmante fenomeno?
Le risposte del legislatore per cercare di contrastare il fenomeno ci sono state, come l’accelerazione del procedimento penale già dalla fase della denuncia-querela sporta dalla persona offesa, che si concretizza nell’obbligo del Magistrato del Pubblico ministero di sentire entro tre giorni la vittima. L’inasprimento delle pene per determinati reati, come è avvenuto per il reato di atti persecutori, meglio conosciuto come reato di stalking, che quasi sempre rappresenta la fattispecie che funge da campanello di allarme del femminicidio, reato di atti persecutori che oggi vede incrementato il trattamento sanzionatorio, prevedendo la reclusione fino a sei anni e mezzo. L’implementazione del provvedimento di ammonimento del Questore, che è una misura di prevenzione prevista per tutelare le vittime di violenza domestica, di stalking e non solo (è applicabile anche al fenomeno del cyberbullismo). Tale potere si attiva quando le forze di polizia ricevono una segnalazione dalla vittima e comporta l’obbligo della persona “ammonita” di astenersi dal commettere ulteriori atti persecutori e di molestia, perché, in caso contrario, i reati perseguibili precedentemente a querela, si trasformeranno in reati procedibili d’ufficio, con impossibilità, dunque, di rimettere la querela precedentemente presentata. Tale misura preventiva può comportare, altresì, l’applicazione del braccialetto elettronico nei confronti del soggetto maltrattante. Infine, è stato introdotto il cosiddetto “arresto in flagranza differito”. Di cosa si tratta? Per molti reati, come avviene per il reato di rapina, il legislatore prevede l’arresto in flagranza di reato, cioè il rapinatore viene arrestato nel momento di commissione del fatto. Per i reati relativi alla violenza domestica, invece, l’arresto in flagranza tendenzialmente non è possibile. Oggi, però, è stato previsto che la polizia avrà quarantotto ore per arrestare il maltrattante ancorché non venga colto durante la commissione del fatto di reato, cioè in una fase esorbitante la flagranza di reato: l’arresto in flagranza differito potrà, quindi, avvenire successivamente entro le quarantotto ore dal fatto, ricorrendo anche a documentazione video-fotografica o conversazioni salvate come le chat.
Secondo la sua esperienza, questi recenti interventi legislativi sono sufficienti a prevenire e, quindi, a contrastare il femminicidio?
Credo che le problematiche possano essere solo parzialmente risolte. Sono due i profili particolarmente ostativi, a mio avviso: i tempi eccessivi del procedimento penale e l’aspetto della cosiddetta “vittimizzazione secondaria”. Al cospetto di una situazione emergenziale di violenza domestica o persecutoria servirebbero risposte preventive e repressive più immediate, ma che i tempi del processo penale non possono purtroppo garantire a causa anche dell’enorme carico giudiziario. Il secondo problema si annida nella mancata denuncia. Purtroppo sono tantissime le vittime che rinunciano a denunciare i loro maltrattanti per timore o vergogna. A ciò si aggiunge il fenomeno della “vittimizzazione secondaria”. Cosa significa? Significa trattare la vittima come fosse partecipe dei reati subìti a distanza di anni dai fatti, perché essendo il processo penale improntato al principio dell’oralità e dell’immediatezza della prova in dibattimento, la vittima deve rispondere alle domande per ricostruire nei dettagli l’accaduto. Ebbene, è un conto raccontare il furto del proprio motorino subìto a distanza di alcuni anni, un altro raccontare e far riemergere tutte le violenze, anche solo psicologiche, subìte. È capitato spesso di trovarmi di fronte ad una persona offesa che ritratti e ciò perché non riesce e non vuole rivivere il ricordo. A tal proposito, sarebbe auspicabile rendere l’incidente probatorio obbligatorio per i reati connessi alla violenza di genere, al fine di sugellare la prova in tempi non troppo lontani come inevitabilmente accade quando si arriva all’istruttoria dibattimentale.
Quali consigli si sente dare alle donne vittime di violenza domestica o di atti persecutori?
Reagire! Non aver timore di denunciare! Parlarne e non chiudersi in se stessi e soprattutto confrontarsi il prima possibile e senza indugio con il legale di fiducia.
Avvocato, oltre alla denuncia e al coraggio, come va affrontato questo fenomeno?
Rispondo con la celeberrima frase di Nelson Mandela “L’istruzione è l’arma più potente che abbiamo per cambiare il mondo”. Il fenomeno della violenza di genere è, come tutti i fenomeni criminali, prettamente culturale. Andrebbe implementato l’insegnamento dell’educazione civica, già dalle scuole elementari. Solo così gli studenti potrebbero essere messi nelle condizioni di comprendere l’ordinamento statuale, nello specifico il diritto penale, e comprendere, in altre parole, quali siano le condotte vietate e soprattutto le conseguenze delle relative inosservanze.