Alberto Cuomo
Molti, sia pure confusamente, mettono in relazione l’architettura e la politica o, meglio, l’architettura e il potere. Del resto se Dio stesso viene inteso quale architetto del mondo, accade che non vi sia uomo di potere il quale non aspiri a determinare eventi e cose quasi sia un dio. Il binomio è presente sia in storie fantastiche che reali. Un’opera teatrale di Fernand Arrabal, scrittore, pittore, musicista spagnolo, vivente e già partecipe delle diverse tendenze artistiche contemporanee, dal surrealismo a Warhol, è intitolata “L’architetto e l’imperatore di Assiria” (1966). I temi affrontati da Arrabal in questo lavoro sono molti, si va dall’immedesimazione in Dio, con tanto di figlio da crocifiggere, al rapporto madre-figlio e, più generalmente uomo-donna, sì da sollecitare considerazioni sulle diverse contraddizioni della vita. Il tutto ruota sullo scambio dei ruoli nei giochi che inventano e compiono i due protagonisti. La vicenda cioè narra di due uomini sperduti in un’isola dove, per reagire alla loro solitudine, fingono di avere altre personalità sebbene di solito sia l’interprete dell’Imperatore ad indicare il ruolo che l’architetto deve avere. Nel circolo del rapporto tra i due emerge la paradossale dialettica servo-padrone illustrata da Hegel attraverso cui viene mostrato come non sia il potere del padrone, chiuso in posizioni prive di veri confronti, a pervenire all’autocoscienza, essendo piuttosto questa accessibile allo sperimentarsi del servo con l’esterno, ovvero in parti che non conosce. E difatti il dramma scritto da Arrabal si conclude con il solo imperatore in scena, mentre l’architetto-servo dopo aver mangiato l’imperatore si è forse allontanato in mare con la piroga che aveva costruito o si è trasformato a sua volta in imperatore che, nella solitudine, interpreta i due ruoli dei vari giochi che continua a inventare, senza uscire quindi dalla finzione che è la vita. E per rimanere nell’immaginifico non si può non citare il mito di Minosse e Dedalo-Icaro. Il mito è noto: dopo il parto della regina di Creta, Pasifae che, fatta costruire una mucca in legno vi si era introdotta per accoppiarsi con un toro, il re Minosse, onde nascondere il Minotauro, frutto di quel desiderio insano, aveva fatto costruire, dall’architetto Dedalo, un luogo per rinchiuderlo, il labirinto, cui far accedere ogni anno 7 coppie di giovanetti ateniesi perché venissero mangiati dal mostro. Quando però Dedalo ebbe svelato a Teseo, allo scopo di far uccidere il Minotauro, il segreto del labirinto da cui si sarebbe potuto uscire tenendo traccia del cammino con un filo onde poter retrocedere all’ingresso, Minosse fece rinchiudere l’architetto con il figlio Icaro nello stesso labirinto chiuso con possenti mura e aperto solo in alto dal quale, il geniale progettista, riuscì ad evadere costruendo ali di penne e cera per volare oltre il recinto della prigione a mezz’aria. Sarebbe lungo spiegare i molti significati del mito, improntato essenzialmente ai valori del femminile (il labirinto ha la forma di un utero) ma quanto qui importa è la contrastata relazione tra il sovrano Minosse e l’architetto Dedalo in cui, come nel dramma di Arrabal, si mescolano il tradito e il traditore e anche qui, mentre l’architetto riesce a liberarsi e fuggire in Sicania, la Sicilia, protetto, grazie alla soluzione di un enigma, dal re Cocalo, Minosse, che lo aveva inseguito, finisce bollito in una vasca da bagno dove era stato invitato dalle principesse su istigazione del re padre. Il complesso rapporto tra potere e creatività è confermato anche nella storia reale. I casi sono molteplici in ogni epoca e sovente il sovrano, se la sovranità è non solo nel legiferare quanto nell’essere al di sopra della legge, è un dittatore come ad esempio Hitler e Mussolini con gli architetti Speer e Piacentini, sebbene anche politici cosiddetti democratici come nel caso di Pompidou, il quale per i poteri della presidenza francese sulla capitale volle “Parigi in piedi”, ovvero l’edificazione di grattacieli a La Defence. In tutti i casi, forse perché l’architettura resiste nel tempo a gloria dell’ideatore, i sovrani si fanno mecenati degli architetti sino all’aspirazione di essere essi stessi progettisti. Si pensi a Traiano e all’architetto Apollodoro di Damasco che costruì a sua gloria molte opere, ma anche al figlio Adriano il quale aveva in antipatia l’architetto del padre, reo di averlo redarguito, tanto da farsi egli stesso progettista, della bellissima villa Adriana, vendicando l’affronto ricevuto con l’esilio e la morte di Apollodoro. E come dimenticare tra i sovrani desiderosi d’essere architetti l’imperatore Nerone, che bruciò la Roma di legno sognando una nuova città marmorea. Oggi la relazione tra architetti e sovrani sembra ripetersi in forme caricaturali, sia perché l’architettura non è più pensata per resistere nel tempo, malgrado i progettisti, almeno quelli più noti, tentino di giungere con i loro progetti nel futuro, sia perché la stessa politica vede equilibri precari con rovinose cadute di tanti uomini, sovrani, che si ritenevano potenti e invincibili.





