La scomparsa del maestro De Simone - Le Cronache Ultimora
Ultimora

La scomparsa del maestro De Simone

La scomparsa del maestro De Simone

Da domenica sera il mondo della musica e dell’arte tutta è in lutto per la scomparsa del Maestro, il Roberto della mescolanza con il suo intreccio di lingue voci e suoni, voci colte e popolari che parlano la lingua poetica dei madrigali e quella del rap. Nel nostro teatro Verdi, fu rappresentato “Il combattimento di Tancredi e Clorinda” di Claudio Monteverdi in un confronto con l’ “Histoire du Soldat di Igor Stravinsky”

Olga Chieffi

E’ mancato domenica sera ai vivi Roberto De Simone, poliedrica figura del panorama culturale scrittore, musicista, compositore, regista teatrale, drammaturgo, musicologo e etnomusicologo di fama internazionale, studioso delle tradizioni ed espressività popolari. De Simone è stato un personaggio geniale, capace – dalla seconda metà degli anni Sessanta – di dare concreto impulso al recupero e la riproposta del patrimonio culturale, teatrale e musicale della tradizione popolare campana, sia orale che scritta. Grazie al fortunato incontro con il gruppo di artisti che animarono la Nuova Compagnia di Canto Popolare, il maestro mise le basi per una nuova linfa del genere folk. Sterminata la sua produzione dall’album Io Narciso al il Requiem in memoria di Pier Paolo Pasolini, dall’oratorio Lauda Intorno allo Stabat, ai Carmina Vivianea, la Festa Teatrale composta per il 250º anniversario del Teatro di San Carlo, il melodramma Mistero e processo di Giovanna d’Arco la cantata drammatica Populorum Progressio, le musiche corali per l’Agamennone di Eschilo, Il Canto de li Cunti , Eleonora, opera composta per il bicentenario della rivoluzione napoletana, Il Re Bello, opera. Il musicologo collaborò anche alle musiche dell’album “Non farti cadere le braccia”, di Edoardo Bennato e nel corso della sua carriera si trovò a curare la regia di decine di opere liriche per i maggiori teatri mondiali, con allestimenti di varie opere di Mozart, di Verdi, di Rossini e Pergolesi. Al nome dell’artista scomparso restano sicuramente legate due opere. La prima è “La Gatta Cenerentola”, considerato il suo capolavoro. Ispirata all’omonima fiaba contenuta nel seicentesco “Lo Cunto de li Cunti” di Giambattista Basile, alle sue varianti tramandate oralmente nell’area campana e non solo, “La Gatta Cenerentola” è una commistione di melodramma, opera buffa e musical colto dalle tinte barocche, ambientata ambientata in una Napoli caratterizzata da munacielli e femmenielli, dalle lavandaie, da una matrigna sette volte vedova, da sette sorellastre, dalla soldataglia spagnola padrona del campo. Altro capolavoro è la sua versione de “La cantata dei pastori”, resa celebre dall’interpretazione di Peppe e Concetta Barra. Nata sull’opera tardo-seicentesca di Andrea Perrucci, in cui viene rappresentata la nascita di Gesù, la “Cantata” racconta le congiure di Belfagor e del suo demoniaco seguito per scongiurare la nascita del Bambino e tutti i tentativi di uccidere Giuseppe e Maria, sventati di volta in volta dall’Arcangelo e da Razzullo, uno scrivano partenopeo impegnato nel censimento della popolazione ma smarritosi nelle campagne. Nel nostro teatro Verdi, fu rappresentato “Il combattimento di Tancredi e Clorinda” di Claudio Monteverdi in un confronto con l’ “Histoire du Soldat di Igor Stravinsky”, rivisitati, appunto, da Roberto de Simone. I due momenti hanno un comune denominatore, nei disastri della guerra. Negli antichi poemi epici, nei quali rientra la Gerusalemme Liberata, entrano in campo quali moderni missili intelligenti, gli eroi, mentre nelle vicende moderne fanno la guerra i poveracci, i soldati, i militi ignoti che muoiono, in e per questo prodotto di massa, quale è la guerra, oggi. Per avvicinare le distanze tra i due momenti, Roberto De Simone ha ricercato nei due capolavori gli stessi timbri, trascrivendo, la musica di Monteverdi per gli stessi strumenti che Stravinsky usa nella sua Histoire du Soldat, facendola precedere da un “cuntu” di due cantastorie. E’ questo il Roberto De Simone che amiamo e che ci incanta, il Roberto della mescolanza con il suo intreccio di lingue voci e suoni, voci colte e popolari che parlano la lingua poetica dei madrigali e quella del rap. De Simone è figlio e padre di Napoli, una città “porosa”, per parafrasare la celebre definizione che Benjaminin coniò per questo luogo magico, per la quale non è facile fissare una specifica identità, ma è come un mare che ha ricevuto e riceve acqua da tanti fiumi. Ecco che ogni opera di Roberto De Simone, diviene palestra-kèpos, un dialogo dell’uno dei e dei molti, sulla base di provocazioni sempre suggestive, poiché provengono dalla favola, incamminandosi sulle tracce del Parmenide di Platone, il dialogo della rottura, della parità e della mescolanza, dando vita ad una sempre rinnovantesi forma d’arte, in un eccelso cortocircuito temporale nella dimensione del sogno. Il mio personale ricordo lega la figura di Roberto De Simone, diverse volte incontrato, sin da ragazzetta, è il suo Die Zauberflote in Scala, diretto da Muti, alla Gatta Cenerentola, infinite volte rappresentata e ascoltata, non lontano dalla sua idea di presepio, che fa parte delle letture della notte di Natale. Chi fra tutti coloro che ogni anno fanno il presepe, conosce la leggenda di santo Stefano che si trasformò da pietra in bambino proprio la notte di Natale? O quella dell’infelice fanciulla che vaga senza requie nei pressi di un ponte, tenendo con sé la testa tagliata dell’amato? Chi sa che le statuine dei Re Magi sui loro tre cavalli bianco, rosso e nero simboleggiano l’iter del sole dall’aurora alla sera, e che sui presepi piú antichi si collocava una figura femminile, la Re Màgia, a rappresentare la luna? Un viaggio a piú voci condotto nel cuore della tradizione, delle leggende popolari, dei giochi rituali e dei sogni, la che recupera il carattere notturno e infero del presepe e che racconta originali aspetti simbolici dei suoi personaggi, un libro che chiude con le note di una Ninna Nanna dedicata a tutti gli zampognari defunti, una nenia che viene da lontano e che sempre tornerà pensando a Roberto De Simone. Marzo 1986: a Napoli si celebrano i 250 anni dalla morte di Giovanbattista Pergolesi e il Teatro di San Carlo li celebrò in modo del tutto particolare. Sotto le ampie volte della cupola della Basilica Palatina di San Francesco di Paola Roberto De Simone pose a confronto due testi di Jacopone da Todi quello dello Stabat Mater poi musicato da Giovanbattista Pergolesi e un lamento in volgare della madre di Dio, la famosissima lauda “Donna del paradiso” che registra livelli più arcaici di lamento del testo latino, che serba tutta la violenza della religiosità popolare. Ai piedi della salvifica e incombente croce della passione Irene Papas fu la grande mater mediterranea, maschera tragica greca, Ecuba, Andromaca, Madre Dolorosa, il cui dire è sostenuto da un quartetto di sassofoni e un quartetto di percussioni e otto vocalist. “Un’emozione intensissima – raccontava l’indimenticato M° Antonio Florio – l’esecuzione e le prove per un concerto che stregò sia il pubblico di Napoli che quello di New York ove nell’ottobre del 1987 ci esibimmo nella Cathedral Churc St.John of the Divine. A Napoli suonavo il sax baritono ed ero in quartetto con l’indimenticato Antonio “Tonino” Balsamo al contralto, Fortunato Cocco al tenore e l’amico scomparso un mese fa Giovanni Procida al soprano, mentre a New York, Balsamo dette forfait e subentrò Alberto Moscariello al baritono ed io passai al contralto. Un giorno Roberto De Simone convocò Tonino Balsamo e me nel teatrino di Corte di palazzo reale e con la sua calma olimpica ci chiese: “Signori quale è secondo voi il suono più triste in assoluto? – e noi, a dir la verità un po’ spiazzati: “Il re bemolle”, “No – rispose Roberto – è il Si naturale. Su questa nota è costruito il mio Stabat”. Quanti hanno avuto la fortuna di ascoltare lo Stabat di Roberto De Simone vengono calati in un magma sonoro, una noiseuse per dirla con il Michel Serres di “Genesi”, fatto di una molteplicità della quale non conosciamo la somma, non sappiamo integrarla in un suono, in un senso, in un’armonia, non ne abbiamo concetto, ma rappresenta tutto il pianto del mondo. Flussione, fluttuazione che sembra voler affondare il pathos pergolesiano, venuto nel secolo dei lumi, ma già preludio ad un romanticismo che smantellerà le certezze armoniche, in una visceralità emotiva che non è solo la disposizione di noi uomini del Sud a vivere i sentimenti ma una vera e propria cultura, antichissima, che da Saffo arriva fino a noi. con tutto l’alto e il basso che da sempre questo artista fa convivere, maestro insuperato del genere.