di Martina Masullo
Quella con la professoressa Maria Rosaria Pelizzari, docente di Storia Contemporanea e di Storia delle donne e studi di genere all’Università degli Studi di Salerno, più che un’intervista è stata una conversazione fitta di riflessioni importanti e arricchente sia dal punto di vista accademico che umano e ha lasciato aperte diverse porte su alcune questioni fondamentali e complesse che attraversano i nostri tempi e la nostra società. Dal 2019 è Presidente Onoraria di OGEPO, l’Osservatorio interdipartimentale per gli studi di genere e le pari opportunità – di cui è stata Direttrice dal 2016 al 2019 – che dal 2011 porta avanti un intenso lavoro di ricerca, documentazione e confronto sugli studi e la parità di genere e le pari opportunità. Si tratta di un lavoro trasversale che mette in comunicazione costante l’università, le istituzioni del territorio e la comunità e contribuisce a creare una rete di valori da tramandare, orizzontalmente, nel tempo.
Tra i suoi insegnamenti, oltre a Storia Contemporanea, c’è quello in Storia delle donne e studi di genere: di che cosa si tratta e come è strutturato il corso?
Ho insegnato Storia contemporanea, Storia della cultura e, attualmente, seguo questo insegnamento. All’interno della disciplina sono compresi diversi aspetti: si tratta di un particolare modo di guardare sia alla storia che a tutte le altre discipline in ottica di genere. Il corso è aperto a tutti i dipartimenti, chiunque si può iscrivere e devo dire che ho sempre avuto studenti e studentesse provenienti dagli studi umanistici quanto dagli studi giuridici, fino a quelli economici. Chiunque negli ultimi tempi è stato curioso e interessato ai rapporti tra uomini e donne nella storia partendo dal presente, ha potuto approfondire le proprie conoscenze nel nostro corso. È fondamentale partire dal presupposto che la storia non è una cosa che appartiene al passato ma soprattutto al presente. La storia delle donne e gli studi di genere aiutano a capire meglio il nostro presente. Il corso vuole rendere consapevoli gli studenti sul fatto che il concetto di genere è costruito culturalmente e socialmente, perché mentalmente c’è una costruzione culturale che ci fa diventare uomini o donne e essere all’interno di questo ruolo significa assimilare stereotipi e pregiudizi che fanno parte dell’educazione e della formazione.
Quella che stiamo vivendo sembra quasi una presa di coscienza di massa rispetto a un problema – quello della violenza di genere – radicato a fondo nella nostra società. Che ruolo e peso assumono i gender studies in tutto questo?
La violenza di genere è uno degli argomenti che caratterizza fortemente il dibattito pubblico e il nostro corso di studi: c’è un’esigenza forte perché gli studenti ne vogliono sentire parlare. I gender studies in generale e il nostro corso in particolare non si concentrano solo sui generi dal punto di vista binario, ovviamente, ma questo è un concetto superato. Forse non tutti sanno che all’Università di Salerno abbiamo la possibilità di identificarci formalmente nel genere Alias e molti studenti ne stanno usufruendo. Alias significa “altro” e accade quando uno studente o una studentessa sono in una fase di transizione di genere ma non hanno ancora completato il loro transito e si identificano non nel genere donna o uomo ma nel genere altro. Questo non riguarda solo la propria identificazione, ma anche l’essere percepiti dagli altri. Gli studi di genere spaziano da questo tipo di questioni alla violenza sulle donne, che non è solo quella che si concretizza nell’omicidio ma anche quella domestica che da secoli rimane tra le mura di casa, quella psicologica o economica. Un altro aspetto fondamentale è il linguaggio della televisione e dei social che affrontano la violenza come se fosse una pornografia del dolore. Ciò che è necessario sottolineare e che è alla base dei gender studies è che non esiste il mostro, ma il violentatore è quello della porta accanto e la cultura della violenza di genere è radicata nella nostra società.
I suoi studi si sono concentrati anche sul sistema moda come dimensione storica, identitaria, sociale, di consumo e produzione, firmando anche un’opera collettiva in 3 volumi per Franco Angeli. Ce ne vuol parlare?
Si tratta di un lavoro collettivo che ho coordinato personalmente e che ha coinvolto fino a 80 studiosi e studiose del settore moda. È diviso in tre capitoli e gli argomenti affrontati sono moltissimi, con contributi provenienti da tutti i dipartimenti: dalle riviste di moda che partivano dal Settecento fino ai nostri giorni, alla moda delle grandi firme, fino alla moda inclusiva, la moda agender e la moda sostenibile. Ma la moda non è soltanto un modo di vestire, fa parte del sistema delle mode che cambiano, mutano nel tempo. La moda muore e ne nasce un’altra e spesso identifica i gruppi sociali: lo abbiamo visto soprattutto negli anni 60 in cui la moda è stata molto rivoluzionaria, è nata la minigonna o nel 68 con i capelloni e l’eschimo perché si era contro il vecchio sistema autoritario. Negli anni 80, il nuovo modo di vestire è stato il simbolo di un nuovo modo di pensare. Nei tre volumi c’è un po’ di tutto. Addirittura, dal Dipartimento di Farmacia è arrivato un contributo sulla moda delle diete che intercetta il discorso del corpo e del modo di percepire il corpo.
Quale è stato il suo percorso di studi?
Mi sono laureata in Lettere moderne all’Università di Napoli e poi mi sono specializzata in Archivistica e Biblioteconomia. I miei sono sempre stati degli studi di confine tra storia e letteratura, non la storia che utilizza solo i documenti d’archivio, ma la storia che si serve anche della pagina di letteratura per ricreare la storia della mentalità di un’epoca. Poi mi sono occupata molto della storia del mezzogiorno con particolare riferimento a Napoli e tutti gli aspetti interessanti che potevano spiegare meglio lo stereotipo del napoletano per come viene percepito all’interno della società contemporanea. Il mio ultimo libro si intitola “Giochi proibiti: il mondo dei giocatori e delle giocatrici d’azzardo a Napoli tra Settecento e Belle Époque” che mette insieme le mie ricerche sugli studi di genere, su Napoli e sul gioco d’azzardo.
L’entusiasmo che mette nel suo lavoro è evidente e contagioso. Ma qual è la sua più grande passione al di fuori dell’università?
Lavoro e hobby per me sono sempre stati un tutt’uno, per fortuna. Non ho mai percepito una grande differenza tra lavoro e tempo libero perché ho sempre amato ciò che ho fatto. Sono appassionata di serie televisive e di Netflix, questo sì. Ma quelle al di fuori dell’ambito della ricerca sono di solito delle passioni transitorie, divoro qualcosa e poi mi passa l’interesse. Invece, l’interesse per le questioni di genere è nato prima ancora di iniziare ad occuparmene dal punto di vista accademico, è stata una tensione sempre presente nella mia vita, soprattutto quando all’università nessuno voleva occuparsene e io cercavo di inserire il tema tra i miei corsi.
Che consiglio darebbe alle nuove generazioni che stanno crescendo in un periodo storico così complesso?
Da una parte direi di non abbattersi mai, di credere sempre in qualcosa, perché la cosa terribile è quando uno non crede in nulla. Poi di essere ottimisti ma di un ottimismo della ragione, non vuoto e privo di fondamenta. Credere in qualcosa e pensare di poterlo raggiungere, ecco. Poi, ancora sognare perché i tempi sono difficili, ma un po’ tutti i tempi sono stati difficili. E invece si va avanti. Credere, sognare e non accontentarsi. Essere liberi e pensare con la propria testa. Alle donne dico: l’indipendenza economica deve essere una priorità, come diceva mio padre.