di Gemma Criscuoli
Meglio non sapere cosa si nasconde davvero nel cuore di una madre. Poco importa se la nascita dell’unico figlio è annunciata coi toni di un cinegiornale fascista: generare è un buio potere che sa presentare un conto molto salato. Accolto con favore presso la Sala Pasolini, “Mio figlio sa chi sono” è lo spettacolo di Paolo Coletta, che ha curato regia e musiche, e di Silvana Totaro, costruito come un inquietante monologo che sgretola le convenzioni borghesi. Gea Martire ha il dono, ormai rarissimo, di condurre lo spettatore dove vuole. Il suo volto, che riflette con abbacinante chiarezza uno spirito tormentato e che sa rendere vivi il compiacimento e il furore, lo struggimento e il sarcasmo, il corpo deciso e fiero, ma al tempo stesso percorso da una tensione destinata a esplodere, non lasciano staccare gli occhi dal personaggio, che si relaziona direttamente col pubblico. Il ruolo sociale è infatti determinante nella messinscena, non solo perché rappresenta una priorità, ma soprattutto per evidenziarne l’ambiguità e il desiderio di dominio. Nicole (cosa avrebbe dovuto farsene del suo vero, squallido nome, Nicoletta?), un odio profondo per tutto ciò che è ordinario, appartiene a una famiglia affermata, è in ottimi rapporti con la Santa Sede e ricorda il suo passato. Se il marito è ormai poco più di una voce al telefono, le presenze maschili nella sua vita sono Vincent, l’amico sempre al suo fianco, e Cristiano, il figlio tossicodipendente, il “pipistrello” che l’osserva con occhi a spillo e di cui si sbarazzerebbe volentieri. La grande foto sospesa sul palco che ritrae un bambino e i genitori non è, in effetti, che un inconsistente stereotipo : Nicole mette in guardia chi l’ascolta dal pensare che quell’immagine così rassicurante possa bastare. Chi, infatti, lo crede, si merita “il pipistrello e tutto il resto”. Lo scontro diventa poi inevitabile, quando Cristiano scopre che la madre ha chiesto a Vincent di procurargli la droga, per evitare che si uccidesse con “roba” di scarsa qualità. La famiglia non ha, dunque, nulla della sacralità che le viene attribuita: deve invece nutrirsi del rovesciamento del sacro. Troppi indizi spingono a considerare la vicenda su un piano pseudo-religioso : la nascita di Cristiano in una notte buia su un’altura innevata; la domanda del giovane a Nicole, “Perché mi hai messo al mondo?”, che riecheggia “Perché mi hai abbandonato?”; il messaggio di Vincent, “Tutto è compiuto”, per avvisare la donna che ha risolto definitivamente il problema del figlio; i tre giorni che trascorrono dopo la scomparsa del ragazzo e dell’amico, che sembrano preludere a una resurrezione. A quel punto, la protagonista comprende il tradimento : come un novello Padre onnipotente, legato al Figlio da disegni oscuri, Vincent ha risparmiato Cristiano portandolo con sé. Alla madre non resta che il peso del rancore verso chi le ha sottratto certezze ed energie, vedendo solo quello che la natura e la società si aspettano da lei. Il finale è aperto : tutto potrebbe essere la fantasia di una figura che non sfugge ai suoi fantasmi o forse Nicole è davvero l’Antivergine, la donna che ha l’audacia di non essere solo un ventre obbediente e che si regala nuove possibilità, sognando una fuga su un nuovo autobus come fece da bambina. Dare la vita è una lotta continua contro un mistero che non si lascia decifrare fino in fondo.