Questa sera alle ore 18 Lira Tv donerà il capolavoro di Bizet, riletto da Gigi Proietti e Quirino Conti, andato in scena al Verdi di Salerno, nel novembre del 2010. Una zattera per simboleggiare la precarietà di una zingara randagia, sempre in bilico tra amore, morte, sacro, profano, superstizione, fato, ondeggiante su quel tema obliquo, erotico, marino
Di OLGA CHIEFFI
“Un demonio”, “una strega”, il fiore di gaggia all’orecchio, le gambe sottili e bellissime, la figura minuta, gli occhi lucenti come diamante, lo scatto dei reni pari a quello di un felino, una forza d’inferno, una inafferrabile forza amorosa, dove amore sta per devastazione e morte, come negra esaltazione e guerra. E’ facile dire che Carmen è vista da Mérimée come un angelo del male. Eppure è così. Carmen vuole don Josè, il giovanotto basco le piace: sparisce e compare nella vita di lui come fra quinte di teatro. Le piace senza che vi sia bisogno di parole per dire tanto piacere. Le basta un’occhiata per divorarlo, gettarlo via, riprenderlo, insultarlo, inebriarlo di carezze improvvise, tirarselo dietro in un’avventura sinistra, per una deriva al cui termine non può esservi che il buio pesto del nulla. La Morte. E Bizet? Raccolse quella suggestione teatrale, e anche la sigla stilistica più saliente del racconto: bruciare l’emozione, spogliare la vicenda d’ogni esclamativo. Dunque, via i recitativi cantati, per scegliere forme classiche, chiuse, con un respiro, però che è quanto di più delicato e divino si possa immaginare. Quanti zingari nel melodramma romantico, e quanti banditi! Non c’è nessuna Carmen, però. Azucena è anzitutto una madre, una madre assetata di vendetta, e poi, una zingara. Carmen, col suo tema obliquo, individuato da un intervallo di seconda vistosamente eccedente, e con il tono scuro della tessitura vocale, è la zingara randagia, è l’eros inconfessabile delle taverne, l’eros che si esprime per vincere ogni degradazione, che è l’ultimo rifugio degli istinti, l’indizio d’una libertà illimitata, difesa fino alla morte, la libertà del corpo, dei sensi. Per Bizet, il mondo intorno a Carmen, intorno a quel tema che si spande come sangue da una ferita che non rimargina, è un mondo tutto vitalità: i soldati del primo atto e le sigaraie, i toreri e le loro marce, i contrabbandieri e i loro giochi di carte e le loro illusioni. E’ il chiasso dell’esistenza feriale, d’un’esistenza di poveri, che strappano al vivere tutto quanto possono. E questa vita dell’attimo, una vita fatta di brevi felicità, di crolli d’umore, d’estasi vagabonde, è travolta da un ritmo divorante, è pari a una fiammata che con un crepitio preso dal vento tutto illumina distruggendo. Tanta vitalità ha un rovescio amaro: l’amarezza che è nel cuore di chi vive ricavando scarso frutto; ma quel poco, nel momento in cui lo coglie, ha respiro infinito. Carmen è quell’amarezza, o il simbolo di essa, anche in Bizet, Carmen è sesso. Oltre il raggiungimento, il sesso è sconforto, è rete insaziabile, è capriccio e nera malinconia. In Carmen, nel suo tema, nel suo sussulto lirico, c’è un duro spessore di ostilità verso tutto e tutti. Carmen lusinga, ama, ma subito prova rancore. Quel che può avere è nulla, e il tutto che possiede rovina via: nel suo gioco di desideri la gitana danza, vocalizza, aggredisce chi le sta vicino, ruba, e getta la propria vita allo sbaraglio. L’incontro con Escamillo (come il personaggio Micaela, originale invenzione dei librettisti Meilhac e Halévy), parrebbe essere per lei decisivo: forse una vita di benessere si profila davanti. Ma il rifiuto a don Josè è un rifiuto segnato dalle cose. La doppia musica dell’ultimo atto, la corrida e, quindi, il duetto d’amore fuori dell’arena, non divide Carmen come a specchio. Il suo “no” all’antico amante è dettato da un istinto negativo che non ha niente a che vedere con l’occasione d’un diverso amore. Il torero, nel cuore di lei, è un’eco di festa, lo sfondo di un conflitto ben più grave. Carmen subisce il richiamo del destino: è presa da qualcosa che le è forse sconosciuto, e che non le lascia alcuno scampo. Il suo abbandonarsi al pugnale, pare rispondere ad un rito, un rito segreto che ella celebra con se stessa e per il quale ha bisogno di un officiante partecipe e pazzo, Don Josè. Gigi Proietti e Quirino Conti hanno trasposto la Carmen nel primo trentennio del Novecento. Opera di rottura il capolavoro di Georges Bizet, è storia universale che regge in ogni contesto. Il cast punta su Anna Rachvelishvili che ha tecnica dell’emissione calda e omogenea lungo tutta la gamma, dell’eguaglianza timbrica insieme con la deliberata varietà dei colori, che la rendono decisa e sfrontata nella lusinga erotica, con quel quid di demoniaco, che è nella sua voce ma mai nell’intensità di espressione, nello sguardo, senza quella disperazione di chi è preda del demone Amore, che prende in essa le forme del symbolon, ovvero del difetto che attinge un eccesso, del basso che si congiunge in eros iniziatico alto, di colei che è continuamente disfatta da ciò che è o appare d’essere, in un continuo respingersi e disperarsi, imprendibile nella sua forza di syn-ballein; Marco Berti, è un Don José dalla voce molto potente, che aggiunge qualche punto nella sua trasformazione in contrabbandiere. Su tutti, il soprano Irina Lungu, che ha ben schizza la figura di Micaela, col suono innocente della sua voce, che ha timbro pallido e tenero come l’argento, la quale sa gorgheggiare e smorzare i suoni nel silenzio con una gemebonda malinconia, in cui c’è tutta la mansuetudine, il pudore e l’inquietitudine del casto personaggio. Mark Doss è un perfetto Escamillo nel fisico, mentre a completamento del cast, Stefanna Kybalova, Frasquita, e Milena Josipovic, Mercedes, Marco Camastra e Vincenzo Peroni, i due contrabbandieri e gli ufficiali, Zuniga, Carlo Striuli, e Moralès, Marco Camastra, e sul podio alla testa dell’Orchestra Filarmonica Salernitana e dei due cori preparati da Luigi Petrozziello e Silvana Noschese, troveremo un Oren in splendida forma, Quirino Conti si affida al Picasso della Suite Vollard , e al suo Minotauro, per aprire e chiudere questa Carmen salernitana, datata 2010 che rivedremo stasera sull’emtittente di Lira TV, simboleggiante la matta bestialitade e la carica emotiva sprigionata, la pulsione violenta e la forza primigenia della natura, la stessa della battaglia d’amore. Scene bianche, come quelle del Nabucco, ispirate alla raffinata eleganza e alla conquista della profondità dello spazio dell’architettura Song. La zattera ideale su cui si svolge l’intera opera è interamente dedicata a Carmen e alle sue origini, offertale da quel popolo strano che vive unicamente l’Istante, muove platonicamente da lì, senza avere ieri, né domani. Ma chi è nomade? Facendo qualche concessione al linguaggio romantico diremo: lo zingaro del mondo: vale a dire, colui che non dimora, non sentendosi mai vincolato ad una condizione stabile di vita. Per vivere nello spazio senza misure del mondo lo zingaro non conosce radici, la sua “infondatezza” lo lascia sussistere nel “girello” della vita stessa, alla costante ricerca di precari rifugi. Vagabondo, può dirsi un anarchico dell’esperienza; per lui la vita è come ripetizione di un gioco. L’indefinitezza spaziale in cui si svolge il suo movimento del peregrinare, si risolve ogni volta nella totalità dell’istante, l’effimero sembra essere questo assoluto negativo, negativo ovviamente di ogni altro ancoraggio dell’esperienza. Ma il gioco del vagabondo è l’avventura, e nell’avventura tutto si decide daccapo. L’avventura riguarda l’accadere; e questo, noi, lo definiamo abitualmente l’accidentale, ciò che capita, il caso. Se l’istante che brucia il tempo lo pensiamo “infinito”, vuol dire che il destino umano resta sospeso all’aorgico, nessuna forza umana può comprenderlo in una definizione, resta infinito, sconfinato, libero, come Carmen, come la Musica.