Stasera alle ore 22,30 e domani alle 18 Lira Tv trasmetterà la produzione de’ “Il Barbiere di Siviglia” della stagione 2010 del teatro Verdi di Salerno firmata dal binomio Daniel Oren-Lorenzo Amato e su tutti le voci del tenore Francesco Meli e del baritono Lorenzo Regazzo
Di OLGA CHIEFFI
Alcun barbiere all’ orizzonte prima della fine della emergenza coronavirus, in cui si potrà fare la conoscenza per la prima volta d’un barbitonsore, per dirla col Colline della Bohème, dopo i diversi mesi di chiusura forzata dei negozi di coiffeur for men e, mentre le donne si acconciano, in qualche modo, e non si vedono ancora per strada gli esiti di esperimenti miseramente falliti ma solo perchè tutti sono tutti serrati in casa, stasera, alle ore 22,30 e domani alle 18 attraverso Lira Tv, irromperà il loro collega più celebre, Figaro. Non sarà il giovane Figaro mozartiano che prende le misure della stanza che il Conte ha gentilmente concesso a lui e alla sua promessa sposa, Susanna, ma il Figaro di Gioacchino Rossini, quel barbiere che fa anche il chirurgo, il botanico, lo speziale, il veterinario e soprattutto il sensale, attività in cui è il più abile della città di Siviglia, un vero ciclone meridionale che ammucchia in fretta parole su parole per avere sempre ragione. Ma forse che questo Figaro sia anche giornalista? Ai tempi d’ oggi eserciterebbe sicuramente e sarebbe il migliore. Lo ricordiamo bene quel Barbiere di Siviglia del 2010, ispirato alle Mille e una Notte con la proiezione del gesto di Daniel Oren a 360° gradi nel ferro di cavallo del Verdi quasi benedetto da quel Rossini, sornione che occhieggia e giudica dal cielo del nostro massimo. Rivedremo, quindi, quella produzione, firmata dal regista Lorenzo Amato, con un cast d’eccezione, capitanato da un Conte d’Almaviva eccellente, il tenore Francesco Meli, il baritono Franco Vassallo nel ruolo del factotum, il mezzo-soprano Elena Belfiore, in quello della vipera Rosina, il grande Lorenzo Regazzo con la veste talare di Don Basilio, il maestro di musica, ipocrita, collotorto e solenne imbroglion di matrimoni e il suo vicino don Bartolo, ancora un buffo, il dottore, antiquato di mente, nevrotico, bisbetico, impotente, tardone, affidato a Bruno Praticò, mentre a completare la compagnia, la Berta, Francesca Franci, con la sua celeberrima aria del sorbetto “Il vecchiotto cerca moglie” e il coro guidato da Luigi Petrozziello. Il pubblico li ama, da sempre, con un consenso che non accenna a diminuire, perchè trova qui il Rossini migliore. Personaggi pari ai cantanti saranno gli “strumentini”, gli eccezionali legni della filarmonica, i quali come loro, dialogheranno, si pavoneggeranno, si pizzicheranno, si inseguiranno e si lasceranno, aumentando via via la loro effervescenza sentimentale e libertina, coinvolgendo gli spettatori. Ricordiamo la celebre confessione di Hegel nella lettera da Vienna del 1824: “Ho sentito Il Barbiere di Rossini per la seconda volta. Bisogna dire che il mio gusto si sia molto depravato perché trovo questo Figaro molto più attraente di quello di Mozart”. Che cosa doveva aver affascinato il filosofo per condurlo sino al ripudio di Mozart ed alla vituperata preferenza per l’opera buffa italiana? Certamente, l’asciutta concretezza della musica di Rossini, la totale assenza da quel mondo poetico dei sentimenti vaghi ed inafferrabili, della tensione introspettiva tipiche della sua età; l’estetica del “non so che” era decisamente ripudiata da Hegel che aborriva tutte le tendenze sentimentali o misticheggianti del romanticismo. Non ci sembra troppo azzardato affermare che in quest’opera l’astrazione ludica e la concretezza della propulsione drammatica stanno in qualche modo fra loro come la tesi sta all’antitesi mentre, a ben guardare, nelle code vitalistiche di arie e duetti, solcate dal frequente emergere della parola e nei concertati statici, audacemente costruiti sulla base di un discorso diretto, i due elementi paiono avvicinarsi e fondersi nella conciliazione della sintesi. Tutto ciò produce quel senso di appagamento formale di perfetta organicità, con il suo gioco spasmodicamente lucido di pesi e contrappesi, che caratterizza Il Barbiere come una cifra tipica ed inconfondibile. Grandissimo spazio è dato all’elemento ludico, inteso come recupero di un’esigenza di costruzione formale dei concertati, usati, però, quale mezzo per garantire un trapasso fluido e quasi inavvertibile dall’azione drammatica all’aspetto più rivoluzionario del ludus rossiniano: la sospensione del “tempo”, o meglio il suo smisurato allargamento in seno ad episodi dove è la musica sola ad imporre la propria forma ed il proprio ritmo interiore. Il che non avviene solo a livello di aria singola, o nei duetti, ma anche nel cuore dell’azione di molti personaggi, per un totale di 318 battute su 687 comprensive dell’intero Finale dell’atto primo, in cui non succede più nulla ma si consuma questa lievitazione del dramma verso il puro delirio vitalistico dell’ultimo brano: l’intero atto trova così il proprio coronamento proporzionato all’arco descritto e capace di riprodurre in grande quello dei numeri solistici, secondo una perfetta corrispondenza delle parti al tutto, del microcosmo al macrocosmo, informati da un analogo principio dialettico. All’interno di questa vicenda, nei pezzi d’assieme, come in quelli solistici, si comprende, allora, la straordinaria funzione di contrasto espletata dal terzo tipo di intonazione, quello già designato con il nome di “parola scenica”. Geniale la sua improvvisa sortita nella quadrata struttura ritmica dei concertati “statici”; folgorante, in questo senso, la frase di Figaro “Guarda don Bartolo” nell’ Andante “Fredda ed immobile” del Finale I. Con un vero tratto di genio, Rossini riaggancia qui alla situazione drammatica, un brano che nel suo fitto intreccio polifonico stava progressivamente lievitando verso gli astratti paradisi musicali: l’inserzione di questo frammento in discorso diretto reso percepibile al massimo grado ristabilisce un rapporto concreto tra i personaggi, catalizza l’attenzione del pubblico attorno ad un fuoco drammatico da cui la situazione intera riceve senso ed icastica evidenza. Ancora una volta l’emersione della parola accende il teatro: l’origine di tanta parte della drammaturgia verdiana risale indubbiamente a qui. La rocca moresca di Don Bartolo, si apre, si chiude, viene attaccata e conquistata, anche se da un cavaliere azzurro, che sa tenersi fuori dalla mischia e ottiene sempre ciò che vuole, senza geni e senza miti, ma praticamente con scale e chiavi: l’ “homme ouvert” di Bergson batte l’ uomo di paura di Rahenau.