Gemma Criscuoli Non potrebbe mai avere la sublime tragicità narrata dall’Evangelista: la nostra catastrofe sarebbe il grottesco sigillo di un’interminabile serie di pericolose idiozie. Ecco perché lo spettacolo è contrappuntato da immagini dei capolavori di Bruegel il Vecchio o di Memling: gli orrori della fine dei tempi in quelle opere non potranno mai inquietare quanto la stupidità umana. Conoscitore perfetto dei tempi comici ed estremamente versatile nel declinare un ironico sconcerto, Valerio Aprea ha conquistato il pubblico della Sala Pasolini con “Lapocalisse”, lo spettacolo basato su testi suoi e di Makkox, nell’ambito delle iniziative promosse dal Teatro Pubblico Campano. I monologhi da lui interpretati rappresentano le tappe di uno scontro epico : quello tra ragione e ottusità, tra monolitico egoismo e versatile approccio al mondo. Risulta, quindi, naturale che gli spettatori siano a più riprese sollecitati su chiarimenti, problematiche, confronti, interpretazioni: la corsa verso l’abisso coinvolge tutto e tutti, impossibile chiamarsene fuori. Non è mancato il momento del furore civico. Quando Aprea ha proposto di rivolgere le proprie rimostranze al primo cittadino, le critiche sono piovute a iosa sui parcheggi, sullo smaltimento dei rifiuti, sull’affare di Piazza Cavour, ma in fondo cosa si nasconde dietro tanta politica che puntualmente ci delude e ci danneggia? Il Fantacitorio, naturalmente, che ha anche l’onore di figurare tra le pagine della Treccani e consiste nel comprare i politici peggiori, e dunque vincenti, attraverso una dote in Fanfani, il conio virtuale richiesto dalla competizione. Dichiarazioni e comportamenti da rizzare i capelli, quindi, equivalgono a eccezionali punteggi: chi vuole annegare i migranti vale quindici punti, ma si arriva a ben cinquanta se lo propone una madre donna cristiana dal braccio teso. Non meno terrificante, tuttavia , è il cosiddetto benaltrismo di chi contesta un eccezionale traguardo, pensando a tutto ciò che non è stato ancora risolto. Se questa visione fosse prevalsa, non solo l’inventore del fuoco sarebbe stato costretto all’oblio (che ce ne importa delle fiamme, se non abbiamo ancora un mezzo per trasportare l’acqua?), ma Russia e America avrebbero anteposto a ogni progetto spaziale la necessità di giungere da Roma a Pescara in meno di quattro ore, con i “rossi” che battono tutti sul tempo, inviando a Tagliacozzo la cagnetta Frechete in una littorina. Altro ostacolo alla civile convivenza, inoltre, è l’opinabilità del sapere diffusa dai social. Aprea immagina di cadere dal motorino, ma non è la logica a soccorrerlo: gli infermieri indossano maschere tribali e sono pronti a praticargli una rettoscopia olistica di controllo con nenia anticoagulante, mentre milze di toporagno pendono nell’ambulanza prossima a sbandare. Se, dunque, si preferisce il pregiudizio e la presunta cultura alternativa a tutto il resto, forse una speranza si annida nell’intelligenza artificiale, ma è una pia illusione. Quando il protagonista si ritrova circondato da cose e persone che rappresentano l’eco di ciò che sta in quel momento desiderando, piomba nell’incubo del mondo algoritmo, “una deformazione del continuum, una prigione creata dai propri stessi gusti” per sempre esclusa dal divenire e l’esito è a dir poco esilarante, visto che il personaggio esasperato resta vittima della propria invettiva. Dinanzi all’ego che fa danni enormi, un unico precetto andrebbe stampato nelle coscienze a lettere di fuoco: ognuno conosce una cosa soltanto e deve tacere riguardo a tutto il resto, principio sacralizzato da un’improbabile formula latina. L’io narrante giunge a questa radiosa conclusione, quando gli infruttuosi consigli per recuperare una chiave finita in una grata sono dissipati dal prodigioso sforzo di un passante che strappa la grata stessa con la cintura e ricorda appunto la formula dell’equilibrio, che è un inno all’umiltà e che fa proseliti entusiasti. Elogio del proprio giardino, alla maniera del Candido di Voltaire? Al contrario: celebrazione del senso della misura e della sana distanza da ogni supponenza. È pur vero, tuttavia, che abituarsi al peggio fa parte della natura umana, che si tratti di fare mosse atletiche per entrare in un box doccia difettoso o di accettare tutto quello che il mondo politico ci propina. L’entusiasmo con cui Aprea riattiva la valvola di un termosifone colpendola con uno schiaccianoci ci coinvolge tutti: è più facile concentrarsi sulle inezie che cambiare quel che davvero non va. Siamo quindi condannati all’apocalisse? Probabilmente sì, ma quel che è sicuro è che non mancherà occasione di riderne.





