di Alberto Cuomo
Papa Francesco, nell’Angelus della vigilia, ha esortato a non considerare la festa del Natale come festa del consumismo e ad interpretarla come festa dell’amore. Purtroppo il consumismo di fatto ha invaso la nostra vita, non solo il Natale, ma investendo la festa dei cattolici scopre ulteriormente il suo lato perverso. In uno dei racconti della raccolta del 1963, “Le stagioni in città”, dal titolo “I figli di babbo Natale”, Italo Calvino affronta la questione del carattere consumistico della società capitalista proprio rilevando la contraddizione che connota i regali natalizi. Nel racconto l’operaio Marcovaldo viene incaricato dal proprietario dell’azienda per cui lavora, la S.B.A.V., a portare regali, nelle vesti di Babbo Natale, ai figli delle persone più abbienti della città, clienti della ditta. “Non c’è epoca dell’anno più gentile e buona, per il mondo dell’industria e del commercio – scrive Calvino – che il Natale e le settimane precedenti. Sale dalle vie il tremulo suono delle zampogne; e le società anonime, fino a ieri freddamente intente a calcolare fatturato e dividendi, aprono il cuore agli affetti e al sorriso”… naturalmente sempre allo scopo di vendere. Marcovaldo è accompagnato nell’impresa natalizia dal figlio Michelino, che intende, tra i vari doni, infilarne uno per un bambino povero. Visitata però la ricca casa di un annoiato e viziato figlio di un industriale, Michelino, considerato povero un tale bambino corre dai fratelli per confezionare per lui alcuni doni, ovvero un martello, un tirasassi e dei fiammiferi con cui il giovane distrugge ogni cosa nella casa per infine bruciarla. Il giorno dopo, allorché Marcovaldo si reca al lavoro timoroso di essere il licenziato, scopre invece che l’industriale, proprietario dell’azienda in cui lavora, è invece felice per quel dono che ha fatto divertire il figlio, tanto da voler mettere in commercio il “regalo distruttivo” così che tutti i bambini possano beneficiarne. Il racconto ha diverse morali. In primis che l’abbondanza offre anche inedia e infelicità, così come sono colte nel bambino viziato da Michelino. E, principalmente, che nella logica del consumo persino ciò che è distruttivo può essere fonte di divertimento e di guadagno. Il racconto è stato scritto agli albori della società dei consumi e, si direbbe, che oggi, pur avendo coscienza del valore consumistico delle festività natalizie ci abbandoniamo ebbri a spendere spesso per oggetti inutili, quasi che il regalarli sia uno status symbol. E pure il dono ha tutti altri sensi raccolti dalla tradizione cattolica. Fu l’antropologo Franz Boas a mettere in luce come tra i nativi americani della costa del Pacifico il dono, “potlatch”, avesse un valore relazionale, nel senso che il rito del donare, anche senza attendersi che quanto regalato fosse ricambiato, era un modo per affermare il prestigio del donatore, ma anche per creare un ponte con il divino. L’antropologo Marcel Mauss ha analogamente riconosciuto il valore del dono quale mediatore sociale e spirituale dal momento esso prevede uno scambio e, essendo parte del donatore, per i polinesiani, contenitore dell’anima di chi dona, da un lato, richiesta di essere ricambiato, sia pure in un termine non definito, e, dall’altro, luogo di una comunione con lo spirito che accomuna i suoi contraenti. Di recente Roberto Esposito, filosofo napoletano, ha messo in luce come l’etimo stesso e, quindi, il significato proprio della comunità, da cum munus, essendo appunto il munus il dono, è nel legame che si determina attraverso il donare. Il valore spirituale del dono quale elemento comunicale, così come è nel Natale cristiano, con i pastori che accorrono verso la grotta portando con sé poveri regali appartiene forse all’uomo stesso, sì che ridurlo ad un mero gesto consumistico è veramente degradarlo. Un racconto di Pirandello ci avverte sul significato della ricerca umana di ciò che trascende l’uomo onde liberarlo dalla contingenza in cui tuttavia permane. Il titolo del racconto pirandelliano è “Sogno di Natale” nel quale lo scrittore narra di aver incontrato in sogno Gesù Cristo. Ma nel sogno non c’è solo un incontro tra due esseri, quanto una vera e propria consustanziazione. Vale a dire che al principio del sogno-racconto è lo scrittore ad assumere la medesima sostanza di Cristo e, nella seconda parte, è il messia a introdursi nel corpo di Pirandello per visitare le case degli uomini e una chiesa dove si festeggia il Natale. Gesù propone allora a Pirandello di voler assumere la sua anima e il suo corpo onde rimanere in contatto con gli uomini, a patto abbandoni le cose che li occupano, la città che ama, la famiglia, i suoi impegni mondani. Pirandello non accetta di separarsi dalle cose che riempiono la sua vita e allora avverte una grossa sberla che gli fa urtare la fronte sul tavolo svegliandosi. “E qui, è qui, Gesù, il mio tormento! Qui, senza requie e senza posa, debbo da mane a sera rompermi la testa” è la frase finale del racconto. Questo forse il senso vero del Natale, la necessaria ricerca per l’uomo di una dimensione che lo riscatti dalla contingenza essendo tale ricerca il proprio del suo essere contingente che lo induce, secondo un potente ossimoro di Cacciari, ad una “Metafisica concreta”.