di Peppe Rinaldi
E’ come se di un film avessero visto solo il secondo tempo, saltando d’un fiato il primo, e nei titoli di coda fosse stata stampigliata, bella grande e pomposa, la parola passe-partout: pace, con la “p” maiuscola. Così diventa tutto semplice, si vince facile e si fa pure bella figura: del resto, si sa che sentirsi buoni risparmia dalla fatica di ragionare.
Domenica 17 dicembre 2023 ad Eboli è stata la volta di un piccolo ma agguerrito gruppo di militanti di sinistra (qualunque cosa significhi) che, in teoria, manifestavano per la pace tra israeliani e palestinesi, in pratica, aravano lo stesso campo di chi vuole quella terra libera da ebrei dal fiume al mare («From the river to the sea Palestine will be free») in aderenza, implicita quanto basta, alla cultura nazi-islamica di cui sono oggi, tra altri, paradossali portatori.
Un gruppo di compagni color rosso vivo (qualunque cosa significhi), tra loro qualche bella testa pur sfregiata dall’automatismo ideologico, alcuni amici e conoscenti di lunga data: tutti da ringraziare, però, per averci sottratto almeno per un po’ all’estenuante dibattito locale su rubinetterie municipali, veri o falsi flop delle festività natalizie, post e like su Fb.
Gli arditi della pace erano pronti e determinati, alle 11,30 di un’assolata fredda ventosa domenica, a chiedere questa benedetta pace, solo che non si è capito bene tra chi dovrebbe essere fatta se al tavolo era stata invitata una sola delle parti. L’arcobaleno pacifista – quello Lgbt, culturalmente e sociologicamente omogeneo, era presente in ispirito – non mancava, né mancava la bandiera della Palestina (qualunque cosa significhi) né altri cotillons tradizionali del luna park della kefiah e della frondola che fa tanto Davide contro Golia o, marxianamente, oppressi contro oppressori, schema prediletto che solleva dal rispetto del principio di realtà. Non c’è traccia della bandiera israeliana, è un matrimonio senza la sposa, una pace fai-da-te come solo il corto circuito intellettuale che si scatena su questo tema è capace di immaginare, cose che succedono se di un film vedi o ti fanno vedere solo il secondo tempo e pretendi pure di spiegarlo a chi l’ha visto per intero, magari più volte. Ma qui siamo nel campo dell’innesco del pilota automatico, del riflesso canile di Pavlov condizionato da un’istruzione scadente e conformista, impastata con lunghe sofisticazioni della cronaca e della storia.
CITTA’ FAMOSA GRAZIE A UN EBREO
Ebbene, nella città il cui “brand” è stato diffuso nel mondo grazie a un giudeo che, letterariamente, vi si fermò (Cristo), una pattuglia di amici e compagni accomunati dal culto tragico inventato da un altro famoso ebreo, stavolta tedesco (Marx), ha chiesto in sostanza, tra frizzi lazzi e buone intenzioni, che gli ebrei siano ricacciati in mare e che Israele, sputo di territorio mediorientale che con Roma e Atene fonda la nostra civiltà, circondato da un oceano di tirannide maomettana guidata da satrapi sanguinari su masse largamente consenzienti, sia libero dalla presenza ebraica, sia cioè “Jewish free”, esattamente come un tempo, mai così ravvicinato, si scriveva sulle vetrine dei negozi e sui muri di Norimberga, di Monaco o di Berlino “Juden frei”, libero da ebrei. Il tutto balbettando «non siamo però antisemiti», salvo indignarsi un secondo dopo perché questi maledetti israeliani non si lasciano massacrare come sarebbe giusto «liberando la Palestina». “Free Palestine” questo significa, lo capirebbe anche un cane, così come “Due popoli, due stati” è ormai formula stantia riservata a chi stabilisce una cinica equivalenza tra le due parti. Ma è sempre l’Atto II di un film che queste persone son sicure di aver compreso per intero, al pari delle indecenti piazze europee o nordamericane, sempre meno tali, che continuano ad esibirsi dopo il pogrom del 7 ottobre 2023. Un inno alla macelleria antisemita contrabbandata, spesso per ignorante buona fede, per ristabilimento della giustizia. Un classico, insomma.
IL PATROCINIO
DEL COMUNE
Ma vediamola un po’ più da vicino questa sorta di assemblea liceale organizzata il 17 dicembre scorso, palesemente ispirata al più grande capovolgimento della verità che la storia dell’ultimo secolo (tralasciando almeno altri 30 precedenti) abbia conosciuto.
Su tutto va registrata la presenza del primo cittadino di Eboli, Mario Conte, concessore di uno stralunato patrocinio municipale ad un evento che già si capiva dove andasse a parare da un’occhiata al manifesto: madre, velata, che accompagna per mano un bambino, dall’alto le bombe in arrivo dal cielo, tutte israeliane va da sé, su sfondo di bandiera palestinese (qualunque cosa significhi). Gli amministratori pubblici disonesti vanno e vengono, le conseguenze delle loro azioni sono relative sulla vita della collettività: ciò che, al contrario, lascia un segno nella storia locale sono proprio queste cose, i “patrocini” ad eventi che possono trascinare nel disonore e nella vergogna un’intera comunità o innalzarla. Il 17 dicembre il Comune di Eboli ha scelto di dare una carezza e un incoraggiamento alla macabra, lisergica cerimonia. Oggi, 4 gennaio 2024, una commissione consiliare aprirà la discussione al pubblico per preparare una bozza di delibera, iniziativa in astratto giusta e sacrosanta se non fosse per il presumibile sbocco finale: una botta al cerchio, una alla botte, condanniamo la guerra, vogliamo la pace, basta violenze. In pratica, un’equivalenza tra le parti che solo chi crede che due più due possa fare anche cinque considera plausibile.
MUSULMANI
CONVOCATI IN PIAZZA
Torniamo alla piazza del 17 dicembre che ignora, tra molto altro, il salto di qualità compiuto il 7 ottobre dai palestinesi superando i già innumerevoli orrori compiuti in oltre 50 anni di furia stragista contrabbandata per lotta di liberazione.
Non tanta gente, qualche numero l’ha garantito un drappello di islamici convocati dal giro di associazioni e mediatori «culturali» attaccati alla greppia pubblica; tra questi, diversi splendidi bambini arabi al seguito di donne velate ricche di passeggini e biberon, quindi di vita e futuro, a contrasto delle nostre che preferiscono cani, gatti e gattini in quanto impegnate a colmare il gender gap e combattere il patriarcato.
Dunque, una giovane donna indigena dall’aspetto intelligente e dal tono gentile invita il cronista a «toccare un tatzebao interattivo per immergersi nella realtà della Palestina», ma, alle domande sul perché mancasse la bandiera israeliana oppure se sapesse indicarci quali siano le nazioni oggi confinanti con Israele, la giovane pacifista, con un cinico candore che ci riporta alla mente la storia di Solov’ev e l’Anticristo, risponde: «Israele non esiste, quindi nessuna bandiera. Gli ebrei si sono impossessati di tutto quando vennero accolti (sic, nda) in Palestina, dovrebbero invece fare come i cattolici che sono sparpagliati in tutto il mondo senza avere un proprio Stato (sic, nda)». Quindi secondo la nostra giovane pacifista che ha individuato la soluzione al problema, a non esistere non è solo Israele ma pure il Vaticano, mentre chi esiste è la Palestina se soltanto non fosse «occupata da 75 anni» (sic), ovviamente da un «regime sionista e fascista, anzi nazista, di apartheid, che sta compiendo un genocidio a Gaza, che uccide di proposito i bambini sganciando bombe, magari al fosforo, sulla loro testa e bombarda gli ospedali» come oscenamente è stato berciato dagli ignari sonderkommando della Piana del Sele riunitisi per la pace. Pertanto uccidere ebrei, dar fuoco a corpi ancora vivi, sgozzare neonati, stuprare donne e bambini, torturare disabili e anziani malati, è atto che si sovrappone agevolmente alla stessa logica che dice alla ragazza stuprata di essersela cercata la violenza essendo andata in giro con la minigonna. Puro delirio, insomma, questo è evidente, sebbene «restando umani».
SOCIOLOGIA DELLA PROTESTA
Si consideri che i presenti, a occhio e croce, sono elettori di un partito politico che ha avuto lo stomaco di designare come suo presidente un noto trafficante di essere umani, uno che compra neonati però dice di farlo perché è un suo diritto, a tacer di blesi sproloqui sull’amore a cui qualcuno ancora abbocca. Insomma, è quel mondo lì, quello che guarda Piazza Pulita e Propaganda, legge Il Manifesto, Repubblica o La Stampa (quando legge), crede che Michela Murgia sia stata una raffinata intellettuale, Saviano un martire, Zero Calcare un valoroso, Gramellini un fine erudito, si fa rappresentare da Fedez e consorte; usa asterischi e pronomi neutri per non offendere il «genere percepito» di qualche disadattato; si inginocchia contro il razzismo verso i negri (in un mondo che ha conosciuto un presidente Usa bianco come Obama, per dire) e che impazzisce nel leggere – appunto – la parola “negri” e non “neri” o “ di colore” in ossequio al bigottismo del vocabolario progressista; crede nell’antropogenesi del cambio climatico e non si imbarazza dinanzi alle scemenze di una scombiccherata ragazzina svedese resa miliardaria dal suo gregge; che ucciderebbe mosche e zanzare con le ciabatte pur di salvare il mondo dagli insetticidi, che organizzerebbe cineforum per il riscatto degli aztechi o dei boscimani, mangia vegetariano o, molto religiosamente, vegano. E che ripete a memoria Israele-colonialista-carnefice v/s Palestina-colonia-vittima.
LA RELIGIONE
ONUSIANA
Saltiamo la parte burocratica delle risoluzioni Onu “disattese” da Israele che l’avrebbero resa meritevole del trattamento speciale riservato il 7 ottobre dagli ammirati palestinesi, con azioni che neppure gli antenati con la croce uncinata erano riusciti a fare in quei modi e in quei termini, per giunta con tanta baldanza festante. L’Onu, ricordiamolo, è il classico rifugio delle anime belle, a maggioranza musulmana e/o altermondista, un costosissimo organismo parassitario che non è riuscito mai a fermare neppure una rissa, guidato a turno da retorici imbroglioni come l’attuale segretario, tal Guterres, la cui autorevolezza è oramai misurabile in micron: le stragi di questi giorni di donne e bambini cristiani in Africa, naturalmente ad opera di maomettani, neppure l’hanno impensierito, né lui né altri. E’ Israele ad essere “sproporzionata”, ovvio. Tutti ora invocano l’Onu (saltando la principale risoluzione, quella del 1947), come hanno fatto gli amici della “resistenza palestinese”, una resistenza così coraggiosa e ardita che non colpisce obiettivi militari o politici ma scanna bambini, ne rapisce finanche di 10 mesi, squarta donne incinta, vecchi, anziani, disabili, stupra e decapita femmine che per le nostre femministe delle panchine e delle scarpe rosse non sono tali perché israeliane, stermina civili incolpevoli («e allora i coloni ebrei ultraortodossi?» si ode già in patetica replica). Ma i gusti sono gusti, se alla pattuglia ebolitana piacciono questi valorosi combattenti ci sarà un motivo, il collaborazionismo è anche questo.
MACABRO FOLCLORE NEW AGE
Ma continuiamo col folclore, ancorché funereo, perché il 17 dicembre ce n’è stato a iosa nel “Free Palestine” patrocinato dal Comune.
A un tratto si ode il suono di sirene anti-aereo, due persone iniziano ad agitarsi guardando verso l’alto, un’altra stende lenzuola bianche sull’asfalto della piazza a significare i morti uccisi dalle bombe (israeliane, va da sé), il tutto in un happening a metà tra gli Indiani Metropolitani degli anni ‘70, un film di Verdone e la denuncia new-age purchessia. Per non farsi mancare nulla, qualcuno a un tratto spara ad alto volume “Bella ciao” però cantata in arabo e qui, sinceramente, il ricorso ad una commissione di esperti del disagio psicologico sarebbe consigliabile visto che i partigiani combattevano contro gli sterminatori di ebrei, non collaboravano con la Gestapo piagnucolando per le bombe sganciate dagli Alleati, se no a quest’ora saremmo tutti con la svastica sulle banconote. Ma da qualche decennio nessuno più chiama le cose col loro nome, a causa di questo infantilismo politico-culturale che vede quelli di Hamas e i palestinesi in genere come dei piccoli Che Guevara, il «problema è più complesso», ricco di «sì, ma, però, sai com’è, la pace, la guerra, le colpe coloniali, la difesa degli oppressi, la tutela dei deboli». Purché non ci siano ebrei, par di capire, proprio come il Reichstag di ieri e quelli con la Mezzaluna di oggi, non a caso alleati già al tempo (lo zio di Arafat, il Gran Muftì di Gerusalemme formò le brigate SS palestinesi, quando Israele ancora non esisteva).
A proposito di resistenze: il 17 dicembre, un pittoresco personaggio con foulard Anpi al collo e vaga somiglianza fisica con l’Eichmann del 1961, inanella una serie di sciocchezze che superano perfino quelle di uno sprovveduto giovane dal look simil-ceceno intervenuto poco prima contro le «aziende e multinazionali che collaborano con Israele e che dobbiamo assolutamente boicottare»: il neo-partigiano ha detto, tra molte altre stupidaggini, di «essere stato in Israele, nazione genocida, dove si impedisce ai palestinesi perfino di avere cure mediche». Palle su palle. Se avesse chiesto al suo leader Ismail Hanyeh, oggi agiato tra gli ori del Qatar, chi avesse salvato sua moglie e in quale ospedale, ne sarebbe uscito in modo più decente. Ma il fanatismo acceca e, in questo caso, fa strame della memoria dei nostri gloriosi partigiani.
Lo zenit, però, si tocca con l’ultimo intervento, quello di una signora forse alterata, nel tono e nel merito, dal tipico furore ideologico di chi parla di cose che non conosce o ha studiato male: la donna si è spinta avanti al punto da esclamare, a valle della solita supercazzola su Onu-religione-bombe-sugli ospedali-bambini-uccisi-di-proposito (solo quelli arabi, ovvio) che «lo dico ai cattolici, tra poco sarà Natale ma sappiate che Gesù non nascerà quest’anno, no, non nascerà». Forse è tra quanti pensano, sfidando il ridicolo, che il bambino di Betlemme in fondo era palestinese, magari scuro di pelle. Siamo dalle parti di un Alessandro Di Battista, per intenderci.
COME LA HITLERJUGEND
Dopodiché, fine della festa, musica e bambini in corteo e al microfono, ammaestrati come la nuova Hitlerjugend della jihad palestinese al grido di “Free free Palestine”.
Un grande economista del secolo scorso, Joseph Schumpeter, scrisse che « (…) dal punto di vista culturale il sistema capitalista ha realizzato due primati: il primo è che nessun altro sistema nella storia umana è riuscito a creare così tanti intellettuali; il secondo è che nessun altro sistema ha fatto crescere così tanti intellettuali schierati contro il sistema stesso. Ancora oggi la tendenza della cultura occidentale è questa: schierarsi all’opposizione di sé stessa». L’economista ed ex ministro delle Finanze austriaco, morto nel 1950, non ha fatto in tempo (per sua fortuna) a sperimentare l’indecenza raggiunta negli ultimi 50/60 anni, dove il problema investe non solo gli intellettuali cosiddetti ma la pubblica opinione nel suo complesso, come il 17 dicembre s’è visto pure ad Eboli. E’ il famoso «odio di sé dell’Occidente», individuato decenni fa da un gigante del pensiero filosofico e teologico dei secoli XX e XXI, l’allora cardinale professor Ratzinger. Domenica 17 dicembre, a Eboli, tra i più citati svettava un certo Mario Bergoglio, non a caso.
Anni e anni di «mai più», di Giornate delle memoria, di autoflagellazione esibita, di ricordo della Shoah, di scolaresche ad Auschwitz, di film, libri, Anne Frank, eccetera: tutto di colpo mandato a puttane, in nome della pace e dei diritti umani sul ritornello del «restiamo umani». Tra un po’ sarà il 27 gennaio e il ricordo della Shoah avrà ancora una volta del surreale: gli ebrei morti sì, quelli vivi no, sono nazisti. Sipario.