Vito Merola
Il frequentarsi nell’amicizia è da annoverarsi fra gli accidentalia negotii, per dirla in analogia. Quando non ci si frequenti per le più varie circostanze della vita, rimane comunque e sempre la presenza, una sorta di trama sottesa al vissuto, una sezione del sé relazionale di rilievo. Così, quando cessa di vivere l’amico a lungo non frequentato, la sensazione di vuoto, di perdita, quel che si dice comunemente lutto, non è d’inferiore intensità. Questo è per me la inattesa scomparsa di Riccardo Velella. Una trama relazionale che iniziava a sdipanarsi nella mia adolescenza. La sua identità elettiva era aggregata intorno alla fede, alla adesione alla Chiesa Cattolica, dove trovava una figura guida nella persona dell’autorevolissimo sacerdote don Italo D’Elia, parroco di Santa Maria della Pietà in Eboli. E si manifestava nella militanza nella Azione Cattolica che veniva a pienezza proprio negli anni della ubriacatura di massa, il 1968 e seguenti, fino al 1977, quando ne iniziava il declino per l’affacciarsi del terrorismo squalificante e d’alcune vicende internazionali che deludevano profondamente chi fosse in grado di usare la ragione. Proprio nel 1968 Riccardo diveniva dirigente della Azione Cattolica “San Vito Martire” e personalità di riferimento d’un gruppo di ragazzi. Li aggregava anche intorno ad una pubblicazione a periodicità mensile che si materializzava in ciclostilato a titolazione “Tutto da rifare, oggi per domani”. Quanta sintonia con lo spirito dei tempi! Tutto da rifare e quanto era vero! Dentro la Chiesa Cattolica come fuori da questa. Nel 1962 s’era aperto il Concilio Vaticano secondo, capolavoro del Papato di Giovanni XXIII, chiuso nel 1965 da Papa Paolo VI. E che ventata di cambiamento, vero e profondo, non abbastanza studiato peraltro, portò quell’evento! E quante sfide e dilaceranti perfino, quanta resistenza alla ventata innovativa conciliare! Fuori dalla Chiesa. L’Università di massa e gli sconvolgenti processi che l’avevano creata innestavano un movimento di radicale cambiamento. Neppure questo abbastanza studiato. Navigava Riccardo in quelle tempeste con la interiore certezza – quanto bene trasmessa! – che si trattava di crescere, di gestire la vita e di collocarvisi secondo un dovere esistenziale che la fede delineava con assoluta chiarezza. Ricorderà sempre quel periodo come una stagione di felicità, la sensazione di saper dare ordine al caos montante. D’avere un compito ineludibile e d’essere in grado d’assolverlo. Si vada a spulciare il suo diario Facebook, (https://www.facebook.com/riccardo.velella.7). Si troverà una rievocazione di quell’epoca struggente. E tanto altro. Fra i miei personali ricordi vi è il campetto improvvisato dietro il Convento delle Cristo Re, dove Riccardo dirigeva una squadretta di pallavolo, anzi cercava con pazienza infinita di formare una squadretta di pallavolo con dei ragazzini scapati, fra cui io preadolescente. E che serenità! Aveva dato assetto comunitario alla intrapresa, non era un sostenitore dell’agonismo, tutt’altro, lo sport è prima di tutto gioia di stare insieme e di amare anche i propri avversari. Fin qui lui, testualmente. Mia rielaborazione: per lui lo spirito sportivo era una secca smentita dell’assunto per cui gli esseri umani debbano necessariamente combattersi. No, dannazione, ragazzi si può gareggiare (ed argomentare dibattendo) amandosi e rispettandosi dal profondo dell’anima! Questo è un tesoro che mi ha donato e la mia gratitudine non sarà mai adeguata a questo ineffabile pregio. L’arte, la pittura più esattamente, il suo grande amore da ammiratore e da fine facitore, dico senza complimentare. Mi ha pure allora insegnato che i complimenti sono concime per la vanità, il più insidioso nemico dell’anima e del pensiero. Secca e chiara la sua estetica. Un radicale contrapporsi a Gilles Deleuze. Per Gilles, i pittori fin dal tardo medioevo avevano capito che “l’artista … ‘con’ Dio può fare non importa che cosa, può fare ciò che non potrebbe fare con l’umanità, con le creature. Tutto ciò è così manifesto che Dio viene investito direttamente dalla pittura, da una specie di flusso di pittura, e che, a questo livello, la pittura trova una specie di libertà per il suo compito, una libertà che essa non aveva mai trovato altrimenti.” (cfr. “Tre lezioni su Spinoza” 1980-1981, ed. italiana 2007). Per Riccardo questa pretesa di libertà dalla realtà del creato era infondata. Rispettata ed ammirata per i capolavori che aveva prodotto, ma non condivisa. Il pittore deve raffigurare della realtà ciò che lo commuove e che sceglie per la capacità d’esprimere l’anima sua. Un realismo come realtà dell’anima. Il reale per Riccardo era l’anima immortale che Iddio ci ha donato. Se avessi avuto la possibilità di offrirgli una raffigurazione poetica per la sua estetica, gli avrei proposto un verso di Rainer Maria Rilke: “Ma il suo destino era che si vedesse” (ihm aber war gesetzt, das er ich sähe”). Ciò che si deve vedere, che gioca le sue carte con la vista, non può pretendere d’astrarre da ciò che si può vedere. Non sono d’accordo con questa sua estetica, ma quanto prezioso il pensare e lo studiare per superarla, per convincermi, almeno, d’averla superata. E non solo per questo tanto amata! Come in genere amo la differenza di gran parte delle sue convinzioni rispetto alle mie. Pregio del darti strada di pensiero. Pregio senza pari. Lui avrebbe probabilmente ricambiato il predetto verso di Rilke donatogli, con questi tre versi di un umile ed a tratti grande poeta-blogger, nome d’arte Andrew Faber, in verità Andrea Zorretta, da Roma, che Riccardo aveva pubblicato sul suo diario Facebook: << Restate vicini anche quando la vita è contraria quando i muri si alzano e le strade spariscono. >> Sempre vicino a te, amico mio, come sul campetto di palla a volo di quei tempi, sempre!





