Marco Manchisi e Stefano Vercelli hanno evocato ne’ “La vecchia, commedia malincomica” il segno ironico di Campanile e Flaiano, ospiti di Mutaverso teatro, ai tempi del “CoronaVirus” al Piccolo Teatro del Giullare
Di Aristide Fiore
Con “La vecchia, commedia malincomica”, Mutaverso Teatro, la rassegna ideata da Vincenzo Albano e giunta alla quinta edizione, si è spostata al Piccolo Teatro del Giullare di Salerno per proporre uno spettacolo dal carattere intimo, realizzato da Esecutivi per lo spettacolo, Drama Teatro, con Marco Manchisi e Stefano Vercelli, nel quale la drammaturgia e la regia Rita Frongia si esprimono in un contesto intimo, essenziale, un microuniverso costituito da due attori intorno a un tavolino nel quale si trattano temi profondi veicolati col tocco leggero dell’ironia. Si tratta della formula adottata nella Trologia del tavolino, della quale questo lavoro fa parte. Un mago rigattiere in un piccolo garage di periferia legge i tarocchi a un poeta inquieto, che cerca di capire da dove venga il dolore che lo prende allo stomaco ogni mattina. Un’atmosfera tra il misterioso e il picaresco pervade gli incontri fra i due. Il romanesco del ciarlatano (Vercelli, che usa in scena dei tarocchi particolari di sua invenzione) e il napoletano di Manchisi (che ha collaborato anche alla stesura del copione), linguaggi vicini fino a un certo punto, ognuno dei quali ovviamente accompagnato dal rispettivo retroterra culturale, filosofico, denotano, insieme a tanti altri indizi, l’incontro tra due mondi compatibili ma non completamente affini, che sembrano accordarsi intorno a una credenza, a una speranza forse, assecondata certo per interesse dal presunto indovino, al punto che i due sembrano raggiungere a poco a poco una perfetta armonia attraverso uno strano rituale di purificazione, fino a fondersi fra loro nell’esecuzione di un improvvisato raga indiano, eseguito utilizzando un curioso strumento elettronico che imita il suono del tabla, imitato vocalmente dal mago. Naturalmente la lettura delle carte, realmente mescolate in scena, necessita il ricorso all’improvvisazione, implicando il collegamento immediato fra le varie figure in una narrazione dotata di un minimo di coerenza, proprio come in una vera lettura dei tarocchi. Sotto questo aspetto, quindi, ogni rappresentazione si configura, almeno entro un certo grado, come una performance irripetibile, che, nel suo ruotare almeno in certe fasi intorno a un canovaccio, recupera il gusto della commedia dell’arte. Gira tutta intorno all’idea della morte, della scomparsa, di un indefinito malessere interiore, questa pièce, ma si ride. Si applaude divertiti ai tanti espedienti con i quali il sedicente santone risponde agli interrogativi e ai desideri del cliente, ma resta anche il dubbio su chi sia, tra i due, il vero mistificatore, o piuttosto ci si potrebbe chiedere se non lo siano entrambi. Che dire, infatti, di questo sedicente poeta, che forse cerca solo di dare un senso spirituale a un malessere fisico, tentando di nobilitare la sua sofferenza citando con tono fin troppo enfatico dei versi di Rimbaud? Sembrerebbe piuttosto rivelarsi non meno impostore della sua controparte, come sottolineato dalla consuetudine di presentargli curiosi aggeggi tecnologici (l’orologio digitale giapponese che indica pure il punto di rugiada e l’allenatore di tabla elettronico), o di offrirgli pasti frugali presentati come prelibatezze che in realtà non riescono a spiccare nemmeno nella miseria dell’antro del mago. Il tutto culmina poi nel gustoso intermezzo di una telefonata surreale, che sembra ispirarsi a Achille Campanile, incentrata inizialmente su una ricetta elementare, a quanto pare discussa per anni, per poi passare alle lodi dei servigi del santone, come per cercare conferma della propria scelta da un interlocutore non troppo sveglio. Forse però il poeta non ha solo bisogno di blande conferme, nella sua ricerca. Vuol vedere qualcuno vivere al posto suo, gustando magari quei piccoli bocconi semplici che a lui ormai sono preclusi a causa del male che lo tormenta. Solo in un momento, forse, lo si ritrova nella sua autenticità: quando, certo, nel modo a lui consono, sceglie di esprimersi attraverso le parole di Antonin Artaud, che seppe dare voce alla sofferenza, facendone il cardine della sua poetica ma anche del suo riscatto: “Sul confine di una sofferenza/Ai margini di un muto dolore/S’installa il castello segreto/Dove la cenere del cuore si espande.” (Da “22 settembre”). La svolta della vicenda è legata al significato della Vecchia, una carta che, nell’ambiguità propria di ogni vaticinio, può significare morte o cambiamento. Una volta scoperta la vera causa del dolore che lo attanagliava quotidianamente, e che equivale a una sentenza di morte, non un dolore spirituale che si riverberasse nel fisico, ma l’esatto contrario, paradossalmente il poeta ritrova la serenità. Si tratta più di piena accettazione del destino che di rassegnazione. Il suo orizzonte coincide ormai con la scelta del trattamento post-mortem, per favorire la quale il “maestro” non esita a offrire per l’ultima volta i suoi servigi, vantando conoscenze vere o millantate. L’ultima lettura dei tarocchi, offerta invece gratis, come dono di commiato, ha un esito finalmente fausto. Ma è il momento del commiato; nonostante tutto, quello della liberazione. Non occorre che trovare il coraggio di lasciar perdere la magia e imparare finalmente, in extremis, a guardare in faccia la realtà. Alla fine anche il ricorso a un ciarlatano si è rivelato utile. Anche la strada sbagliata, per chi persevera, può portare a una rivelazione.