Successo di pubblico per l’orchestra del conservatorio “G.Martucci” di Salerno, diretta da Jacopo Sipari di Pescasseroli, sul non facile palcoscenico del Teatro Verdi, che ha letto la partitura lisztiana, in sincronia con le immagini di Marco Romano e Orsi Horvath
Di Olga Chieffi
L’umano come insieme di homo faber e di spirito entrambi costruttivi sta abbandonando l’umano stesso, il tempo in cui viviamo è il tempo della fine. Può discenderne un compito per noi uomini della fine, cercare in voci mistiche del passato lo sforzo di voci mistiche dall’umano. Tutti abbiamo svolto questo compito assumendo quale testimone del tempo pieno Dante, nel suo giorno, il Dantedì. Massimi attori, l’orchestra e il coro del Conservatorio “G.Martucci” di Salerno diretti da Jacopo Sipari di Pescasseroli, con le voci preparate da Marilù De Santo, impegnati nell’esecuzione della Eine Symphonie zu Dantes Divina Commedia S.109 di Franz Liszt, col racconto per immagini di Marco Romano e Orsi Horvath, i quali si sono calati consapevolmente in quel “verbum sine verbo o super omne verbum”, per dirla con il Meister Eckart dei Die Deutschen Werke, che è la musica, l’arte tutta, col suo “istante” infinito, il suo “tempo pieno”. Parterre de roi in platea con le massime cariche del Miur, con Marcella Gargano, che ha portato i saluti del ministro Bernini e il Sindaco Vincenzo Napoli, che si è rivelato dantista convincente e una diretta streaming sui canali governativi, per i circa cento ragazzi, con qualche prestigioso “aggiunto” tra viole e celli, su di un palcoscenico non semplice per acustica ed un uditorio eterogeneo ed esigente in sala. Evento questo, cercato e voluto dai due Fulvio del Martucci, il direttore Maffia e il suo vice Artiano, che in un giorno infausto, quello della scomparsa di Antonio Bisaccia, si è ritrovato a sostituirlo ai vertici del Cnam e a dedicare alla sua memoria questo concerto, che si è caricato, così, maggiormente di emozioni. In questo particolare climax Jacopo Sipari ha attaccato la Dante Symphonie, con un’orchestra composto di strumentisti poco più che ragazzi, in cui abbiamo intravisto, in alcune pagine, una grana timbrica, flessuosa, non ancora certamente rifinita, ma gravida di suono ed intenzioni. Ha chiesto tanto il loro Maestro: di “cantare” con grande generosità, anche il pianissimo, il tutto, però, orientato nel senso dell’attendibilità da una dottrina esecutiva che ha tentato di non lasciare nulla all’improvvisazione stilistica, riuscendo anche a conciliare scuole e convinzioni diverse, creando suono, slancio espressivo e sapida scioltezza di fraseggio, su di un campionario di soluzioni timbrico-musicali, veramente complesso. Partitura al di sopra delle possibilità tecniche di buona parte dei ragazzi, questo Liszt, per di più con le proiezioni da controllare, ma è noto che il magistero italiano, in particolare quello napoletano, preme il piede sull’acceleratore della sfida con pagina e autore, ma la direzione di Jacopo Sipari è risultata tesa a favorire l’evidenza, la chiarezza, la linearità di un percorso musicale volto sempre in difesa della bellezza della pagina, con questi giovani musicisti, i quali sono riusciti a calarsi nella logica del “zusammen musiziren”, in palcoscenico e in particolare fuori risolvendo ogni difficoltà anche logistica. Le ricchissime invenzioni della partitura sono state messe in rilievo grazie ad una sapiente resa del fraseggio tra le sezioni degli archi e dei fiati. Il momento di maggior rilievo dell’intera performance è avvenuto nel secondo movimento, dedicato al Purgatorio, nel suo avvicinamento, anche per immagini, passando su qualche discromia proprio nell’attacco tra corni e legni, dove, comunque, è stato posto in evidenza l’aspetto dolente e meditativo di questa partitura. Qui, il ruolo fondamentale è stato giocato dai fiati che sono apparsi tutti molto precisi, passando su qualche discromia proprio nell’attacco tra corni e legni, ma dobbiamo menzioni, non solo per la seconda cantica, al clarinetto basso di Gaetano Apicella, a tutte le prime parti, il fagotto Pietro Amato, il flauto Mario Montani, l’oboe Pietro Avallone, il corno inglese Sebastiano Scorpio, il clarinetto Aniello Sansone, i quali, tra l’altro, hanno schizzato, con punta da incisore, questa anticamera del Tristan und Isolde, a tre anni dal fatidico akkord, “porta” del secolo breve, frasi musicali, figure dipinte che hanno inciso su una vita, modificato un destino, alleviato o aggravato un dolore, ance evocative, orfiche, per la creazione di un universo sonoro naturale, dal quale l’uomo sembra escluso, quali simbolo del “dis-In-Canto”, l’ultima nota per quella mancanza, quel desiderio di Dio, che si fa simbolo di una gioia cosmica, dell’estasi che palpita “in dem tönenden Schall, in des Weltatems wehendem All”. Ed ecco il Paradiso, in cui è entrato in gioco il coro, con la voce solista, tradita dall’emozione, per quel “canto che tanto vince nostre muse”. Ha qui ascoltato e cercato il silenzio il Maestro, giustamente evocando il “venir meno” di Dante che non può più intendere e ode, staccando sull’ultima vibrazione delle corde degli archi. Abbandono espressivo ma gesto lucido, elegante, a volte tagliente per Sipari, con un’orchestra che è passata dal fortissimo più violento sino a piegarsi al sussurro, con uguale compattezza, grazie ad un giovane sorprendente e già affidabile Konzertmeister Domenico Giannattasio, al contrabbassista Luca Rodio, alle arpe Martina Landi e Antonietta Lamberti, unitamente a nomi già affermati del mondo musicale quali i cellisti Dario Orabona e Matteo Parisi e le viole di Alessandro Zerella e Giuseppe Vetere. Applausi scroscianti per tutti e appuntamento ai prossimi pirotecnici eventi del Martucci.