Di Alfonso Mauro
Nella benjaminiana epoca della pressoché totale riproducibilità dell’opera d’arte (lirica inclusa), e negli internautici meandri della quale è possibile imbattersi in quasi ogni produzione storica-recente con flosculus di direttori e performers, l’attenzione pruriginosa di un certo tipo di melomane — esemplare da studio sociologico che intenda per sacrosanta modestia lasciare le considerazioni squisitamente musicali in ultimo, o a’ maggiori sui, o ai fanatici investigator-collezionisti di stecche e stonature — non può ch’essere captata dal nume talvolta minore delle mises en scène: regia, scene, costumi… L’ambito è famigeratamente fantasmagorico, nonché consuetudinaria scaturigine d’alcuni timori antescenici; ma è alla regista Chiara Muti, unitamente alla scenografa Leila Fteita e al costumista Alessandro Lai, riuscito d’eccellere sin da levarsi di sipario. Le prime battute tra il partenopeo illuminista da cafè e gli ufficiali amici suoi sono rimpallate in un campo di pallacorda reminiscente di quella rivoluzione “che poi sì celebre / là in Francia fu” — e Alfonso è arbitro! Non di voce profonda come altrimenti abituati dall’Euterpe-YouTube ma spassoso e soavemente rattuso. Nel coro “Bella vita militar”, le tende-parasole del soggiorno flegreo delle volubili sorelline ferraresi trasmogrificano prima in vele di nave e poi in sventolanti bandiere bianche pe’i “campioni di Ciprigna e di Marte”. La coleridgiana suspension of disbelief — patto scenico praecipuus in quest’ultima del duo Mozart-Da Ponte — è messa in classico atto per mera aggiunta di mustacchi posticci, mentre altrove i costumi interpolano più interessanti suggestioni, come nell’à-pois sbocciante lampadine negli abiti nuziali in “Benedetti i doppi coniugi”, o come nelle fiabe più o meno per horror vacui drammaturgico evocate in un precedente labirinto di siepi mosse su rumorose rotelle. Et alia theatralia… Per la verità, cotanta machina — replete with caroselli (i più retoricamente smaliziati preferiranno la lectio giostra-calcinculo), Cupidi steampunk atterranti in pallone (“Deh! perché al nostro secolo / Non diè propizio il Fato / D’un altro Orfeo la cetera, / Se Montgolfier n’ha dato?”), mesmerismi shelleyani per nastri di ginnastica ritmica, mosche cieche giocate durante la breve età innocente dell’ “Ah guarda sorella” — induce sì un misto d’ambe piacevoli sorpresa concettosa e perplessità circospetta, ma ha per tali pro avuto il contro d’esser mossa dagli operatori a sipario alzato, con rumoreggiamento cattivo cattivissimo compagno dei finalini. Fortunato l’uom che prende ogni cosa pe’l buon verso — e questo chiudersi di Settecento nella Napoli delle scommesse incredibili, pur interpunto da clavicembalo troppo sopra le righe e altri momenti vocali e strumentali non propriamente puliti, riesce divertente: apicale conditio sine qua non per l’inscenamento d’un dramma giocoso, d’una boutade, di humour d’oltre due secoli fa.