Carmen, tragedia greca, secondo Kartaloff - Le Cronache Spettacolo e Cultura
Spettacolo e Cultura Musica

Carmen, tragedia greca, secondo Kartaloff

Carmen, tragedia greca, secondo Kartaloff

Di Olga Chieffi

Canterà il coro, assiso sugli spalti della plaza de toros o di un anfiteatro greco, scrutando il passaggio di questa strana carovana fatta di varia umanità, sigaraie, soldati, bambini, zingari, Carmen “Si avvicinerà leggera, morbida, con cortesia, con la sua serenità africana. La sua felicità è breve, improvvisa, senza remissione – scrive ancora Nietzesche – L’amore vissuto come fatum, come fatalità, cinico, innocente, crudele”. Un canto esotico, inedito, riferito con la disinvoltura di un resoconto di viaggio accompagnerà una tragedia che si consumerà sullo sfondo di una corrida, in pieno sole, dove la morte non ha dove nascondersi. E’ tra questa gente che si sviluppa la storia della nostra Carmen, in scena al Teatro Verdi di Salerno domani sera alle ore 21 e domenica 26 alle 18. Il coro ce la racconta, la conosce da secoli. La storia a cui assiste in quel preciso momento, tra quella gente, l’ha già vista migliaia di volte in altrettanti posti nel mondo, in tutti i tempi. Ma il coro, questa volta, decide di non essere solo spettatore, e diventa parte attiva della storia, dalla doppia funzione di narratore e di voce della coscienza. Un’idea questa che proporrà il regista Plamen Kartaloff, il re di Sofia, anche alla base della Carmen proposta dall’Orchestra di Piazza Vittorio. “Un demonio”, “una strega”, il fiore di gaggia all’orecchio, le gambe sottili e bellissime, la figura minuta, gli occhi lucenti come diamante, lo scatto dei reni pari a quello di un felino, una forza d’inferno, una inafferrabile forza amorosa, dove amore sta per devastazione e morte, come negra esaltazione e guerra. E’ facile dire che Carmen è vista da Mérimée come un angelo del male. Eppure è così. E Bizet? Raccolse quella suggestione teatrale e anche la sigla stilistica più saliente del racconto: bruciare l’emozione, spogliare la vicenda d’ogni esclamativo. Dunque, domani sera, dialoghi recitati, con qualche taglio, con forme classiche, chiuse, con un respiro, però, che è quanto di più delicato e divino si possa immaginare. Quanti zingari nel melodramma romantico, e quanti banditi! Non c’è nessuna Carmen, però. Carmen, col suo tema obliquo, individuato da un intervallo di seconda vistosamente eccedente e con il tono scuro della tessitura vocale, è la zingara randagia, è l’eros inconfessabile delle taverne, l’eros che si esprime per vincere ogni degradazione, che è l’ultimo rifugio degli istinti, l’indizio d’una libertà illimitata, difesa fino alla morte, la libertà del corpo, dei sensi. Carmen è quell’amarezza, o il simbolo di essa, anche in Bizet, Carmen è sesso. Oltre il raggiungimento, il sesso è sconforto, è rete insaziabile, è capriccio e nera malinconia. In Carmen, nel suo tema, nel suo sussulto lirico, c’è un duro spessore di ostilità verso tutto e tutti. Carmen lusinga, ama, ma subito prova rancore. Quel che può avere è nulla, e il tutto che possiede rovina via: nel suo gioco di desideri la gitana danza, vocalizza, aggredisce chi le sta vicino, ruba, e getta la propria vita allo sbaraglio. L’incontro con Escamillo (come il personaggio Micaela, originale invenzione dei librettisti Meilhac e Halévy), parrebbe essere per lei decisivo: forse una vita di benessere si profila davanti. Ma il rifiuto a don Josè è un rifiuto segnato dalle cose. La doppia musica dell’ultimo atto, la corrida e, quindi, il duetto d’amore fuori dell’arena, non divide Carmen come a specchio. Il suo “no” all’antico amante è dettato da un istinto negativo che non ha niente a che vedere con l’occasione d’un diverso amore. Il torero, nel cuore di lei, è un’eco di festa, lo sfondo di un conflitto ben più grave. Carmen subisce il richiamo del destino: è presa da qualcosa che le è forse sconosciuto, e che non le lascia alcuno scampo. Il suo abbandonarsi al pugnale, pare rispondere ad un rito, un rito segreto che ella celebra con se stessa e per il quale ha bisogno di un officiante partecipe e pazzo, Don Josè. In assenza di del Maestro Daniel Oren ieri mattina in conferenza stampa, ma che abbiamo ritrovato in serata sul podio, tra i ragazzi, che hanno assistito alla generale, la parte del leone l’ha fatta il regista Plamen Kartaloff, ospite del segretario artistico Antonio Marzullo e del Sindaco Vincenzo Napoli, che ha confessato il suo amore per questa opera, il quale ha inteso vedere Carmen quale eroina classica, una musa della libertà come Antigone, Elettra, Medea, Ifigenia. Metateatro, spalti, cerchio rosso come l’abito di Carmen, danzatori e cuadrilla in argento e nero, Kirill e Deyan Ivanov, unitamente a Rosen Kanev, coreografati da Pina Testa, coro con maschera, personaggi principali in costume tradizionale con Escamillo in traje de luces, il tutto svolgentesi su questo cerchio girevole che è quello della vita. Un cerchio rosso rotante, al centro del palcoscenico, interamente dedicato a Carmen e alle sue origini, offertole da quel popolo strano che vive unicamente l’Istante, muove platonicamente da lì, senza avere ieri, né domani. Ma chi è nomade? Facendo qualche concessione al linguaggio romantico diremo: lo zingaro del mondo: vale a dire, colui che non dimora, non sentendosi mai vincolato ad una condizione stabile di vita. Per vivere nello spazio senza misure del mondo lo zingaro non conosce radici, la sua “infondatezza” lo lascia sussistere nel “girello” della vita stessa, alla costante ricerca di precari rifugi. Vagabondo, può dirsi un anarchico dell’esperienza; per lui la vita è come ripetizione di un gioco. L’indefinitezza spaziale in cui si svolge il suo movimento del peregrinare, si risolve ogni volta nella totalità dell’istante, l’effimero sembra essere questo assoluto negativo, negativo ovviamente di ogni altro ancoraggio dell’esperienza. Ma il gioco del vagabondo è l’avventura, e nell’avventura tutto si decide daccapo. L’avventura riguarda l’accadere; e questo, noi, lo definiamo abitualmente l’accidentale, ciò che capita, il caso. Se l’istante che brucia il tempo lo pensiamo “infinito”, vuol dire che il destino umano resta sospeso all’aorgico, nessuna forza umana può comprenderlo in una definizione, resta infinito, sconfinato, libero, come Carmen, come la Musica. Attorno a questa piattaforma circolare si aggirano le Moire, qui in fogge maschili, con i fili del destino che neppure Zeus può cambiare, anche questa soluzione già sfruttata, da Emma Dante in Scala ed una sua evocazione, anche nella Carmen qui firmata da Gigi Proietti e nel Giulio Cesare in Egitto, andato in scena all’Opera di Roma, nell’ottobre del 2023, per la regia di Damiano Michieletto. Il cast, quasi per intero scuderia Ariosi, anche l’assistente Gaetano Lo Coco effigiato sul libretto di sala (unicità tutte salernitane), punta su Maria Kataeva decisa e sfrontata nella lusinga erotica, con quel quid di demoniaco, Jean François Borras, quale Don José, quindi, il soprano Sabina Puértolas, darà voce a Micaela, che ha timbro pallido simbolo della mansuetudine, del pudore e dell’inquietitudine. Claudio Sgura sarà un invidiabile Escamillo, mentre, a completamento del cast, Daniela Cappiello, sarà Frasquita e Angela Schisano, Mercedes, Roberto Accurso e Blagoj Nacoski, saranno i due contrabbandieri Dancairo e Remendado e gli ufficiali, Zuniga, l’immancabile Carlo Striuli, e Moralès, Yoann Dubruque, con sul podio, alla testa dell’Orchestra Filarmonica Salernitana e dei due cori preparati da Francesco Aliberti e Silvana Noschese, Daniel Oren.