di Michelangelo Russo
Nelle ultime settimane la Cultura a Salerno ha dato un timido segnale di esistenza, con gli annunci della Fondazione Menna rinnovata nel suo consiglio di amministrazione. Grossi proclami su una esposizione della donazione della vedova Menna alla Fondazione omonima. Cioè al Comune e alla Provincia, che sono soci fondatori di maggioranza, per cui la Fondazione è un soggetto giuridico di diritto pubblico, automaticamente e per costante insegnamento di Corte dei Conti, Consiglio di Stato e Cassazione. A dispetto della sonorità mediatica degli annunci, di visibilità di opere in realtà c’è ben poco. Siamo andati nella sede della Pinacoteca Provinciale in Via Mercanti, per vedere quelle opere indicate come anteprima del tesoro d’arte piovuto in dono alla comunità salernitana.Alle pareti delle sale della sezione più vecchia del Museo nulla di nuovo rispetto alle opere storicamente già presenti. Nelle sale della nuova sezione, una esposizione di un artista americano che (sarà colpa mia) non conosco, ma che occupa tutte le sale e salette della nuova sezione. Praticamente assorbendo tutto lo spazio che l’esposizione, reclamizzata sotto il titolo “la Regola e il Caso”, avrebbe dovuto avere stando ai proclami della Fondazione. Eh, si! Perché il proclama ufficiale parlava di un imperdibile evento del 15 dicembre di una prèmiere espositiva di lavori di Georges Braque, Carlo Carrà, Marc Chagall, Otto Dix, Iulius Evola, Paul Klee, Giorgio Morandi, Pablo Picasso, Enrico Prampolini, Luigi Veronesi. Il tutto nella Pinacoteca Provinciale. E adesso vediamo come è allestita questa decantata mostra da capogiro. Dopo aver chiesto al bravuomo che fa da custode unico, alle 13. 00, a cotanti capolavori dell’arte moderna mondiale, su dove stesse la mostra, ricevo una generica indicazione verso tutti i quadri annosamente appesi alle pareti. Ma no, gli dico! Dov’è la mostra nuova? E mi indica la mostra dell’americano. Ma no, no! La mostra della Fondazione Menna, insisto? E che cos’è la Fondazione Menna? Mi risponde allibito il custode. Stiamo freschi, penso. Ripasso un attimo per la prima saletta, per dare un ultimo sguardo al trittico quattrocentesco che occupa la parete principale. Ed allora lo vedo! Non il trittico, ma accanto al ben noto capolavoro un quasi invisibile foglietto in bianco e nero, come una sorta di impronta da carta copiativa. Ed è Picasso, proprio lui; ma è un’opera affatto coinvolgente, a dir poco modesta. Ed è un multiplo, il dodicesimo su cinquanta esemplari stampati. Ma allora i capolavori decantati stanno nascosti tra i vecchi quadri? Ne trovo un altro, piccolissimo come il primo. E’ un’altra litografia, stavolta di Paul Klee. Nemmeno questa è un’opera emozionante. Quando poi leggo la tiratura stampata di questo pretenzioso capolavoro, mi accorgo che questo esemplare è il numero 421 su 1950 esemplari stampati. Insomma, è tutt’altro che una rarità da Museo. A questo punto, avrei potuto fare anche io una donazione alla Fondazione, e chiedere per i miei doni l’onore dell’esposizione pubblica in un Museo con tanto di riconoscimento. Sono in possesso, infatti, di litografie di Andy Warhol, Graham Sutherland, Marino Marini, Alexander Calder, Juan Mirò e altri di calibro internazionale. Tutte regolarmente firmate a matita dagli autori. Me le ritrovo perché donatemi dal compianto amico avvocato Bruno Saporito, che era abbonato dalla prima ora della celebre (al tempo) rivista Bolaffi Arte; nei primi anni ’70 la rivista premiò i primi 5000 abbonati col regalo di altrettante litografie firmate dai predetti artisti. A quel tempo l’arte non era ancora una speculazione a danni dei gonzi, e c’erano omaggi di questo tipo. Non avrei mai pensato, però, che queste piccole opere, viste le dimensioni e la grande tiratura, fossero degne, ai nostri giorni, dell’onore reclamizzato di una mostra per la gloria delle istituzioni culturali salernitane. Perché questa che sto cercando di vedere, se solo si vedessero le opere, è una mostra coi fiocchi. Dicono i proclami che è stata finanziata dalla Regione Campania (con il POC 2014 -2020), prodotta e promossa dallo Scabec regionale (ed è quanto dire!) e dalla Fondazione con il patrocinio del DISPAC (Dipartimento della Cultura dell’Università) e dal Centro IcT per i Beni Culturali dell’Università. Pare che sia costata un bel po’ di soldi, pure! Prima di andar via, noto ad una parete una specie di manifesto, senza alcun segnale di richiamo. Questa si, finalmente, è un’opera dignitosa per una mostra. E’ un olio su carta di Iulius Evola, periodo dadaista degli anni tra il 1920 e il 1930. Valore sui 50-60 mila euro (di più se fosse olio su tela). D’accordo, un bel pezzo. Ma senza indicazioni e spiegazioni, che ci sta a fare tra i quadri seicenteschi della sala? Il tanto decantato tesoro della Fondazione Menna si rivela, alla fine, una delusione. Se è questa la caratura del rilancio culturale per Salerno, è meglio aggrapparsi ai bagliori modesti di Luci d’Artista al tramonto della sua gloria passata.Per la prossima eventuale mostra di questo genere della Fondazione metto gratis a disposizione le mie litografie di cui sopra, numerate 600 su 5000. Ma pretendo un museo vero per il prossimo anno.Per favore, Befana, regala a Salerno un Museo vero per il prossimo anno!