Di Federico Sanguineti
Se per «canone» si intende l’insieme di quei testi che chi insegna storia della letteratura o fa storia letteraria considera imprescindibili letture di ogni persona colta, per quanto concerne le cosiddette «patrie lettere» la sola presenza globalmente riconosciuta è quella di Dante, non perché un qualche critico statunitense lo abbia collocato in un presunto «canone occidentale», ma perché il grande fiorentino è da tempo parte integrante, per dirla con Goethe, e quindi con Marx ed Engels, della Weltliteratur. Sono dunque in gioco i Maggiori, per usare il venerando titolo di due tomi della casa editrice Marzorati (1956), per cui accanto al poeta di Beatrice si collocano il cantore di Laura e l’autore del Decamerone. Ma poiché, scriveva Tiraboschi a fine Settecento (rimosso da De Sanctis un secolo dopo), «fin dal primo nascere della Poesia Italiana avean cominciato le Donne a gareggiare con gli uomini nel coltivarla», con I Maggiori ci sono pure Le Maggiori. Di fatto esiste una scrittrice in grado di fronteggiare da sola le tre corone, Cristina da Pizzano, non solo per la celebre «cité des dames», ma per una pionieristica competenza (ponendo Dante al di sopra del Roman de la Rose) in quella che oggi si chiamerebbe «letteratura comparata»; una smisurata produzione autobiografica, etica, filosofica, lirica, politica, sociologica, storiografica; nonché la consapevolezza, per la prima volta nella storia, che le proprie creazioni sono frutto di una soggettività tale da meritare una raccolta organica organizzata dall’io stesso che le ha prodotte, come testimonia il codice Harley 3341. Così, se Poliziano rappresenta il Quattrocento, accanto a lui si ricordano Isotta Nogarola, Cassandra Fedele e Laura Cereta. Quando, un secolo dopo, i «Maggiori» sono Ariosto, Machiavelli, Guicciardini e Tasso, le «Maggiori» sono Gaspara Stampa, Veronica Franco, Isabella Andreini e Lucrezia Marinella. Quindi, accanto ai «Maggiori» Goldoni, Parini, Alfieri e Monti, ci sono, a loro volta, «le Maggiori» Petronilla Paolini Massimi, Faustina Maratti Zappi, Pellegra Bongiovanni e Luisa Bergalli Gozzi. Insieme a pagine di Foscolo, Manzoni e Leopardi si leggano quelle di Isabella Teotochi, Caterina Franceschi e Maria Giuseppa Guacci Nobile. Accanto a Carducci, Verga, Pascoli e D’Annunzio ecco Annie Vivanti, la Marchesa Colombi, la Contessa Lara e Clarice Tartufari. E poi? Con Moravia, poniamo, c’è Elsa Morante. A coronare, in termini (direbbe Gramsci) di storicismo assoluto, questo canone di scrittrici e di scrittori ‒ che non sarà più «oltrecanone» o «controcanone» ‒, c’è Carla Lonzi che, a nome di tutte le donne e, per illazione, di chiunque subisca oppressione o sfruttamento, ci ricorda che, se il patriarcato «non avrà più l’equilibrio psicologico basato» sulla sottomissione femminile, «non salterà il mondo». Ogni giorno di più a non reggere è invece il «sistema capitalistico» che, come chiarisce Joyce Lussu in Padre, padrone, padreterno, «segna un regresso della posizione della donna, sia nella classe dominante che nel popolo». Poiché l’arte è il mondo proprio dell’essere umano, vale a dire la più sociale di tutte le attività sociali, ragion per cui, mascherandosi come apolitica, la letteratura è la più politica delle attività politiche, finalmente non rimane, una volta di più, che memorizzare le parole di Rada Iveković: «La responsabilità del socialismo e, a livello di storia delle idee, la responsabilità di tutte le sinistre, al potere e non, è incalcolabile. È di non aver capito che la diseguaglianza e l’ingiustizia patite dalle donne, in tutte le società conosciute, non è una discriminazione fra le tante, ma è alla base di tutte le altre discriminazioni ed è costitutiva del sistema».