Il tenore è certamente la rivelazione della prima parte della stagione del nostro massimo, col suo sentire “all’italiana”
Di OLGA CHIEFFI
E’ una voce d’altri tempi quella del tenore Antonio Poli, una gola d’emissione raffinata, non da gara di resistenza, dalle sorprendenti intuizioni e delineata personalità. Lo avevamo lasciato tra gli applausi nei panni del Duca di Mantova del Rigoletto che chiuse la scorsa stagione e lo abbiamo felicemente ritrovato nel Requiem di Giuseppe Verdi, che ha salutato le masse orchestrali e corali del Teatro di San Carlo, dirette da Juraj Valčuha, ospiti prestigiosi del cartellone del Teatro Verdi. Un Requiem quello sancarliano in cui il direttore ha inteso pensare alla vastità del quadro armonico, rendendolo misterioso, attraverso una partecipazione che pare risalire da un orizzonte di memorie sulla cui soglia ci si trattiene dall’indagare. Valcuha ha tentato di realizzare un contenuto situato oltre la consueta cornice di melodramma. Se il giovane direttore slovacco ha ben disegnato gli echi della polifonia italiana, Verdi resta se stesso, mai distratto dal senso anche barbarico delle proprie passioni, né dalla sacralità del rito, né dal bisogno dell’iscrivere nell’arco dei bisogni catartici del dolore collettivo quelle passioni. Nel Requiem ci sembra di ascoltare il Verdi di teatro. Un po’ di Aida, un po’ di Simon Boccanegra e di Rigoletto e persino cenni di Otello, che doveva ancora vedere la luce, ma sia il soprano Iano Tamar, chiamata a sostituire la Rachel Willis Sorensen, che pur essendo navigata nell’arte canora e risultata affatto precisa nel tempo e nell’intonazione, sia Olesya Petrova, non sempre pulita nella interpretazione di una linea di canto, che va cesellata, hanno tradito il volto teatrale dell’opera, mentre il basso cinese Liang Li ha esibito una voce corposa e carismatica, in particolare nel Mors stupebit, sugli enigmatici unisoni dell’orchestra, con quelle pause che vanno ascoltate, vissute, quale simbolo del dubbio. Il tenore Antonio Poli, è stato l’unico a non farci dimenticare l’anima teatrale di Giuseppe Verdi nello sciogliere l’Ingemisco, con sensibilità e intelligenza pari alla già solida cultura vocale, giocando tra l’interpretazione dell’aria da chiesa e l’ambientazione pastorale, cedendo quindi, il testimone al basso con l’implorazione “Confutatis Maledictis”, prima dell’esplosione terribile del monumentale Dies Irae, nucleo dell’intera partitura. Riascolteremo e rivedremo presto il pupillo di Paola Leolini, letteralmente esploso dopo il trionfo al Concorso Internazionale “Hans Gabor Belvedere” di Vienna. Leggiamo il suo nome nel cartellone del teatro San Carlo accanto ai personaggi di Tamino e Alfredo, un Alfredo che potremmo ascoltare anche a Salerno, se dovessero rivivere le scene zeffirelliane di Traviata, crediamo un doveroso omaggio al regista fiorentino, ma i melomani ne attendono il debutto nel Mefistofele di Arrigo Boito, nel novembre del 2020, ospite del cartellone del Teatro di Piacenza, ove la sua voce eclettica dovrà schizzare la figura tormentata e irresoluta di Faust, che consentirà di farci riscoprire un compositore per nulla affatto né semplice né scontato, ma deciso a descrivere attraverso le note quella crisi espressiva, e la conseguente ricerca di strade alternative, che aveva investito un’intera epoca.