Si sentiva cantare, a Napoli, forse fino ad una quarantina di anni fa, un po’ da per tutto, senza “chitarre e manduline” e senza alcun accompagnamento. Il canto non era una rappresentazione a beneficio di altri, si cantava per sé: per “sbariare”, per vivere un momento di pausa, per commuoversi o rallegrarsi. Da un balcone aperto o dalla strada veniva, ogni tanto, una canzone, un ritornello, una frase, voci di gente comune, voci isolate, voci di chi, forse, voleva inconsciamente placare una pena o ingentilire per un attimo il tran tran quotidiano. E come chi legge un libro interagisce con la pagina scritta, interpretando in maniera personale fatti e personaggi, così, chi canta, frugando soprattutto nella sua memoria, contribuisce un poco a ricreare quel canto. Così è stato, forse, per secoli, fino a quando la canzone ha fatto parte della memoria collettiva dei napoletani, e, quindi, della loro formazione, della loro cultura e anche della loro vita quotidiana. Poi, si è sentito cantare sempre meno; questo bisogno, nei napoletani, diventati come tutti più spettatori che attori e, quindi, più ascoltatori che “cantatori”, oggi sembra quasi estinto. Il canto perduto di Napoli rivivrà domani sera, alle ore 21, presso le antiche pietre del Convento di San Francesco, di Lustra Cilento, che chiuderà la VI edizione della rassegna Momenti d’Autore ”, organizzata dall’Associazione Culturale “…Se tanto mi dà tanto…”, presieduta dall’avvocato e trombettista Michele Toriello e realizzata con il contributo della regione Campania e dell’ Ente provinciale per il turismo di Salerno. Il soprano Anna Corvino, trionfatrice, al teatro Verdi di Salerno con Bohème, accompagnata dalla pianista Margherita Volpe, ci accompagneranno in un vero e proprio viaggio musicale con la sirena Partenope; un excursus nella storia della tradizione partenopea attraverso le pagine di Gaetano Donizetti, De Curtis, Lama, Denza, Tosti, Di Capua, Gambardella. Risulta non facile fissare la specifica identità della canzone napoletana, perché essa è come un mare che ha ricevuto acqua da tanti fiumi. E’ figlia della poesia, come quasi tutti i canti di antica tradizione, e ha espresso, come le è universalmente riconosciuto i sentimenti, la storia e i costumi di un popolo. Nello stesso tempo, però, si è adattata alle esigenze di mercato, diventando, di volta in volta, canzone di taverna, da salotto, da ballo, teatrale, sia comica che drammatica, e chi sa quante altre cose ancora. Non sempre e non solo bisogno di canto e di poesia, quindi, ma anche buono o cattivo artigianato. Il fatto singolare è che la canzone, “porosa” come la città – per dirla con la definizione che Benjamin coniò per Napoli -, ha assorbito tutto, riuscendo a rimanere in fondo se stessa. Malgrado sia stata contaminata, nel tempo, da sonorità appartenenti ad altre culture e ad altri generi musicali, la melodia napoletana è riuscita a conservare un suo codice di riconoscimento, un proprio DNA, quel “profumo”, che la rende inconfondibile, come una lingua perduta, della quale abbiamo forse dimenticato il senso e serbato soltanto l’armonia, una reminiscenza, la lingua di prima e forse anche la lingua di dopo. Musiche e versi che con i loro contenuti hanno raccontato semplicità ed erotismo, essoterismo e magia, rituali sacri e profani, feste popolari. Ed è proprio qui che trova origine questo incredibile canzoniere, dove le suggestioni, le intonazioni, le evocazioni del nostro vernacolo si trasforma in un canto ora dolente, ora euforico, capace di esprimere l’eterno incanto dei sensi di questa magica sirena Partenope. Dal mare nascono e al mare ritornano, infatti, le note di questo concerto, che abbracciano la tradizione popolare, la “poesia cantata” del repertorio d’autore, completata dalla memoria sonora collettiva con il vigore ritmico e l’aggressività espressiva che sa trasformarsi in danza e nella eterna sfida del popolo partenopeo alla vita.
Olga Chieffi