Alla ricerca di Manrico, il Trovatore - Le Cronache
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Alla ricerca di Manrico, il Trovatore

Alla ricerca di Manrico, il Trovatore

Trionfo di Violeta Urmana alla prima del capolavoro verdiamo, seguita dalla talentuosa Irina Morena e da Massimo Cavalletti. Pollice verso per Gustavo Porta e Carlo Striuli. Statica la regia di Renzo Giacchieri, che non ha alimentato quel fuoco in cui ardono e si dissolvono tutti i personaggi. Orchestra molto trattenuta nella prima “prova” con Daniel Oren

Di OLGA CHIEFFI

Il Trovatore continua ad essere perseguitato dal celebre detto di Enrico Caruso, secondo il quale l’unica cosa di cui ha bisogno questa opera, che deve far parte della cerchia incantata di quei titoli che i teatri non possono non permettersi di rappresentare, sono i quattro cantanti più grandi del mondo. Daniel Oren, reduce da un intervento alle anche, non ha, eroicamente, inteso abbandonare ad altri il podio per la prima del capolavoro verdiano, pur presentandosi claudicante, sostenendo un’opera lunga e complessa, per la quale quasi non si è concesso pause. E’ stata per Daniel Oren una “prima” assoluta anche nella lettura, poiché il maestro non ha diretto neanche la generale, ma l’intesa si è sentita, con qualche momento di incomprensione con il palcoscenico nell’ attacco di “Tacea la Notte placida”, nel caricamento eccessivo degli accenti nel duetto della II scena della parte quarta e con il coro in scena, incertezze che sono state sicuramente eliminate nelle due repliche successive, ma dobbiamo anche plaudire stavolta gli ottoni per “Squilli, echeggi la tromba”, eseguita con stentorea decisione anche dal coro, preparato da Tiziana Carlini. La lettura verdiana, cui ci ha abituato Oren, non è esplosa in toto, forse anche per coerenza con una regia statica, quale si è rivelata quella di Renzo Giacchieri, con coro schierato e  cantanti, di numero in numero in proscenio, come la scena e i fondali di luce ideati da Alfredo Troisi, con la monumentalità di un allestimento buono per molti titoli di ambientazione tardo-medievale. Non è facile cantare Verdi e Daniel Oren con la Urmana è andato sul sicuro. Il soprano lituano ha ottenuto inizialmente fama mondiale proprio come mezzo-soprano, prima di diventare un soprano lirico drammatico e il ruolo di Azucena è certamente il suo, capace al primo apparire di soggiogare il pubblico, sia dall’evocazione di “Stride la vampa” con quel segreto del Si che ritorna come un’idea fissa, un’ossessione che penetra, s’insinua e intride. Poca fuliggine per la vampa, ma la perfezione si tocca in “Condotta nell’era in ceppi”, eseguita con una miriade di sfumature sul lamento del suono dell’oboe (quello sopra le righe di Domenico Sarcina) e del violino, sul brivido degli archi, un’opera di cui resterà nella mente  il peso carnale del canto della Urmana, la sua bruciatura dell’anima. Si sa che Daniel Oren è uno straordinario talent scout e, dopo aver lanciato la Maria Agresta nel ruolo di Leonora, ecco il talento di Irina Moreva debuttare lo stesso personaggio. Voce ricca di armonici la sua, con acuti accarezzati da bellissimi filati, buona attrice, in qualche momento con timbro vistosamente più profondo – scelta interpretativa? necessità tecnica? -, prima che nell’ultima parte la voce si lasciasse andare a più adeguate trasparenze, ovviamente conquistando la sala. Punto debole dell’intero è risultato il tenore Gustavo Porta, il Trovatore, Manrico, non nuovo purtroppo a queste cronache.  La sua voce, ci ha convinto solo nei fuoriscena, quando dalla prigione saluta la sua Leonora, quindi nel registro centrale. Gli acuti, invece, peccano di intonazione, “avvicinati”,“presi”, ma non “cantati”, per di più con una pronunzia interamente aperta e larga di tutte le vocali, che portano a rallentare, in particolare in duetti e assiemi, timbro qualunque, il legato poco curato, l’emissione non solidissima, il talento interpretativo poco spiccato. la voce non manca di squillo ma sicuramente di nitidezza, la scansione possiede l’aura dell’imperiosità. Spara qualche Do decente nella pira, ma poco altro: purtroppo Manrico si è rivelato a sprazzi. Terza “luce” del cast è risultato Massimo Cavalletti, nel ruolo del Conte di Luna, affrontato con timbro pieno e, forse, troppo brillante, con dizione chiara e  potenza di voce. Ne’ “Il balen del suo sorriso”, una delle pagine più belle del repertorio per baritono è sempre puntuale e conclude una performance, prediligendo la figura del Conte gentiluomo, più che del cattivo di turno, senza sbavature. Nota dolente, il ruolo di Ferrando affidato a Carlo Striuli, che possiede, oramai solo il registro centrale ma assolutamente senza velluto e rotondità, mentre a completare il cast Miriam Artiaco, sottotono nei panni di Ines, un Ruiz di lusso quale Francesco Pittari, Mario Bove che ha dato voce al vecchio zingaro e il messo di Achille Del Giudice. Soddisfacente la prova del coro, nonostante la rottura di un martello nel coro delle incudini della prima serata. Applausi per tutti e teatro tutto per Violeta Urmana. Ultima replica questa sera alle ore 18.