di Raffaella D’Andrea
A Salerno, il 21 settembre non è soltanto la giornata della solenne processione in onore di San Matteo Apostolo, patrono della città. È anche il momento in cui il profumo pungente dell’aceto e della milza imbottita invade strade e case, diventando segno distintivo di una tradizione che unisce sacro e profano. La “meveza ’mbuttunata”, come la chiamano i salernitani, non è solo un piatto: è memoria collettiva, rito popolare e simbolo di appartenenza. Durante la festa, ogni famiglia ne prepara una versione propria, mentre chioschi e bancarelle animano il centro storico offrendo il celebre panino con la milza. Senza questo piatto, si dice, “San Matteo non è San Matteo”. Le origini di questa usanza affondano nei secoli. Alcuni studiosi la collegano alla comunità ebraica presente a Salerno nel Medioevo: agli ebrei macellai spettavano spesso le interiora degli animali come forma di compenso, e da lì sarebbe nata la consuetudine di cucinare e valorizzare la milza. Con il tempo, la città ha trasformato questo cibo “povero” in un’icona gastronomica della festa patronale. Tra i custodi di questa tradizione c’è Matteo Accurso, macellaio di terza generazione, che dal 1930 porta avanti con la sua famiglia l’attività nell’antica Macelleria Accurso. Per lui, la milza non è un piatto qualsiasi: è storia di famiglia, memoria viva e fede. «Questa usanza mi è stata tramandata da mia madre, che la preparava ogni anno con le zie», racconta. «Mio nonno arrivò da Napoli all’inizio del Novecento: faceva i salumi, poi decise di fermarsi a Salerno, aprendo la macelleria che ancora oggi porto avanti». Un tempo erano soprattutto le massaie a custodire il rito: donne pazienti e devote, che trascorrevano intere giornate tra battuti di prezzemolo, aglio e peperoncino, e pentole fumanti di vino e aceto. Non c’era famiglia che, in vista di San Matteo, non preparasse la sua milza. Non c’era famiglia che, in vista di San Matteo, non preparasse la sua milza. E nelle macellerie, come ricorda Matteo, non si vendeva solo la milza, ma anche fegato, polmoni e altre interiora. «Mio padre – continua – correva al macello per procurare questi tagli poveri, perché erano il vero sostentamento delle famiglie: costavano poco e nutrivano tanto». Oggi, con il cambiamento delle abitudini e l’avvento del benessere, molte frattaglie sono scomparse dalle tavole. «I giovani non sono più abituati a mangiarle – spiega Matteo – e le macellerie si sono trasformate in gastronomie per proporre piatti pronti, così da mantenere viva la tradizione anche in chi ha meno tempo da dedicare a ricette lunghe e laboriose». Il rito della preparazione resta però intatto. La milza viene aperta, svuotata e farcita con un battuto di prezzemolo, aglio e peperoncino – a Cava de’ Tirreni si aggiunge anche la menta – poi cucita e cotta lentamente. «Ci sono due scuole di pensiero», spiega Matteo. «C’è chi, dopo la rosolatura, aggiunge subito aceto e vino e lascia bollire. Io preferisco un metodo diverso: rosolatura lenta fino a creare una crosticina e aggiunta graduale di vino e aceto. È un procedimento più lungo, ma regala un sugo scuro e vellutato che smorza l’acidità e fa risaltare il profumo del peperoncino. Quando irrora il panino, diventa pura poesia». Ogni 21 settembre questo rito si rinnova: dopo la processione, i salernitani si ritrovano sul lungomare con in mano un panino alla parigina imbottito di milza e intriso del suo sughetto. Un morso che sa di festa, identità e memoria condivisa. Per Matteo, però, la milza non è solo tradizione gastronomica. Dentro c’è anche la fede. «Un sogno premonitore – racconta Matteo – ha spinto a chiedere di diventare portatore della statua di San Giuseppe, che accompagna la processione di San Matteo. Non ne avrei avuto diritto, perché è un onore che si tramanda da padre in figlio e la mia famiglia non è originaria di Salerno. Ma il destino ha voluto diversamente: una serie di circostanze mi hanno portato lì, sotto le stanghe. È stato un segno, un dono che porto nel cuore, e che ogni anno rinnova il mio legame con il Patrono». La sua storia è fatta anche di sacrifici e rinascite: «Ho vissuto momenti difficili, ma il banco della macelleria mi ha sempre dato la possibilità di rialzarmi. Questa attività è la mia identità, il filo che mi lega a chi è venuto prima di me». E chi non ha mai assaggiato questa specialità avrà l’occasione di scoprirla il 18 settembre, quando Slow Food organizzerà una degustazione gratuita di milza ripiena all’Arco Catalano, in collaborazione con il ristorante Vicolo della Neve. Un’iniziativa per far conoscere, soprattutto ai più giovani, un piatto che non è solo cibo, ma cultura, fede e memoria collettiva. La storia di Matteo Accurso è una delle tante che animano la festa di San Matteo. Storie che raccontano la bellezza di una città capace di custodire le proprie radici, trasformando un piatto povero in simbolo di identità, fede e orgoglio salernitano.
La milza ripiena di Matteo Accurso
Ricetta tradizionale salernitana preparata in occasione della festa di San Matteo
Ingredienti (per una milza da 1–1,2 kg circa): 1 milza bovina (1–1,2 kg), 400 g di prezzemolo fresco, 1 spicchio d’aglio, 20 g di peperoncino piccante, 400 ml di aceto di vino rosso, 400 ml di vino rosso, Sale q.b. (da dosare sia per l’imbottitura che per la cottura esterna), Olio extravergine d’oliva q.b.
Preparazione: Con un coltello affilato incidere delicatamente la milza lungo il lato più lungo, creando una tasca interna. Eliminare eventuali residui di sangue e lavarla.
Tritare finemente il prezzemolo fresco, l’aglio e il peperoncino. Condire con sale (in questa fase è importante dosarlo bene: se eccessivo, l’imbottitura risulterà salata anche dopo la cottura). Riempire la cavità della milza con il trito aromatico, distribuendolo in modo uniforme.
Cucire l’apertura con ago e spago da cucina resistente, in modo che il ripieno non fuoriesca durante la cottura.
In una casseruola capiente scaldare un filo d’olio. Adagiare la milza e farla rosolare a fiamma bassa, girandola più volte, finché non si forma una crosticina dorata e compatta. Questa fase è fondamentale: sigilla la carne e dona sapore. Aggiungere vino rosso e aceto poco alla volta, alternandoli. Ogni volta lasciare che i liquidi si ritirino e che la milza si insaporisca.
Il procedimento richiede tempo e pazienza, fondo di cottura deve diventare scuro, cremoso e leggermente vellutato, capace di avvolgere ogni fetta senza risultare troppo acido. Durante la cottura aggiustare di sale anche all’esterno della milza. Una volta cotta, lasciar intiepidire leggermente la milza. Tagliarla a fette e adagiarla all’interno di un panino tipo “parigina”. Irrorare con un po’ del fondo di cottura: il panino dovrà impregnarsi del sugo profumato, diventando succulento e irresistibile.
Il Consiglio di Matteo
«Il segreto è la lentezza: vino e aceto non vanno versati tutti insieme, ma poco per volta. È così che la salsa diventa corposa e che la milza prende quel sapore che da generazioni accompagna la festa di San Matteo».





