Salvatore Dell’Isola ha affidato l’anteprima della stagione al duo composto dalla violinista Giovanna Trapanese e dalla violoncellista Sharon Viola
Di Olga Chieffi
“Giunt’ è la Primavera e festosetti /La Salutan gl’ Augei con lieto canto, /E i fonti allo Spirar de’ Zeffiretti/Con dolce mormorio Scorrono intanto:/Vengon’ coprendo l’aer di nero amanto/E Lampi, e tuoni ad annuntiarla eletti/Indi tacendo questi, gl’ Augelletti;/di nuovo al lor canoro incanto”. Sono i versi che sugellano in calce la Primavera di Antonio Vivaldi simbolo che La musica e il ciclo perpetuo della natura, sono da sempre misura originaria e universale del tempo e della vita umana, di cui il gruppo dei concerti delle Quattro Stagioni che apre la monumentale raccolta vivaldiana dell’opera VIII, Il Cimento dell’Armonia e dell’Invenzione, rappresenta uno dei più originali e suggestivi esempi di quella che, forse con un termine fin troppo semplicistico, viene definita “musica descrittiva”. Sarà proprio il realismo relativo, “sui generis”, che non va assolutamente inteso nel senso moderno del termine, del Prete Rosso che si mantiene sempre entro i limiti di una rappresentazione ordinata ed equilibrata, secondo le leggi della proporzione e della simmetria che esprimono la verità e la perfezione dell’arte, ad inaugurare il concerto di Primavera del Maiori Festival in uno straordinario matinèe, oggi alle 12.00, in streaming sul canale YouTube della kermesse (www.youtube.com/channel/UCQD8LaWZANN9_ApmaeQECMA), dal Salone degli Affreschi di palazzo Mezzacapo. Il direttore artistico Salvatore Dell’Isola , ha affidato l’ouverture del suo Maiori Festival, alla violinista Giovanna Trapanese e alla violoncellista Sharon Viola. Trascrizioni particolari, quindi per la Primavera vivaldiana, che offre il tema al programma, seguita dal Concerto nº 1 in D, Op.6 di Niccolò Paganini. L’arte di Niccolò Paganini è così indissolubilmente legata al concetto di virtuosismo. Il suo funambolismo violinistico non veniva infatti percepito come puro esibizionismo, bensì come simbolo della capacità dell’uomo di trascendere i propri limiti. In questa pagina Paganini sembra ispirarsi al linguaggio del Classicismo, poiché è completamente assente il principio dell’elaborazione tematica. L’Allegro iniziale, contraddistinto da un piglio disinvolto ricorda il Rossini delle ouvertures. La marzialità del primo tema offre al solista quasi tutti gli spunti di virtuosismo, mentre la seconda idea motivica, dolce e cantabile, dà vita ai momenti di più intenso lirismo.Nell’Adagio, dopo un’introduzione di sapore operistico, fa il proprio ingresso il canto del violino che, secondo l’autore, doveva rappresentare l’accorata preghiera di un prigioniero ingiustamente incatenato, dal timbro sommesso e malinconico e proprio come in un’aria del melodramma la forma è tripartita, con una ripresa caratterizzata da un crescendo concitato e patetico. Nel terzo movimento, Rondò, troviamo il più puro spirito del bel canto rossiniano. In questo Allegretto spiritoso la sostanza musicale passa in seconda linea di fronte alla tecnica sbalorditiva, che vede il solista impegnato in passaggi di estrema varietà timbrica, con una impressionante successione dei più diversi e difficili colpi d’arco, armonici doppi, scale e arpeggi di ogni genere, che arrivano a sfiorare il registro sovracuto, prima d’allora praticamente ignorati nella pratica violinistica. Passeremo, quindi, a musica originale per questa formazione, con il duetto n°3 in Re maggiore di Jean Baptiste Brèval e il duetto n°2 dell’op 124 di Sebastian Lee, due virtuosi e grandi didatti e innovatori del violoncello, alla eterna ricerca di oltrepassare ogni soglia timbrica e tecnica di questo meraviglioso strumento. Ancora due trascrizioni per il gran finale del concerto: la prima è la Bourèe dalla Sonata per flauto in G Major, HWV 363b, Op. 1, No. 5 di Georg Friedrich Haendel risalente al periodo 1712-1716 anch’essa fatta oggetto di trasformismo timbrico che conferma la sensibilità del genio tedesco, per la materia sonora e la sua qualità coloristica, la seconda è il celeberrimo Canone in Re maggiore che, Johann Pachelbel scrisse per tre violini e basso continuo, e si accompagnava ad una giga, intorno al 1680, e come molti brani appartenenti a quest’epoca, cadde nel più completo oblio per secoli. A dargli nuova vita fu Jean-François Paillard, che con la sua orchestra da camera registrò nel 1968 una versione lenta e romantica, che incontrò immediatamente i favori del pubblico. Il primo violino, iniziatore di ogni novità melodica, esegue disegni via via più veloci, che passano dalle semiminime alle biscrome, tutte su una progressione di accordi immutata, realizzata, in questa occasione, dal solo cello.