Enrico Paulucci: una questione di “misura” - Le Cronache
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Enrico Paulucci: una questione di “misura”

Enrico Paulucci: una questione di “misura”

Domattina alle ore 11,30 il vernissage della personale che aprirà la stagione espositiva della Galleria Il Catalogo. Un omaggio al segno del grande artista genovese, oli, gouaches e pastelli realizzati tra gli Anni Sessanta e Ottanta. 

Di OLGA CHIEFFI

La galleria Il Catalogo di Lelio Schiavone e Antonio Adiletta inaugura, domattina, alle ore 11,30, il suo 2020 con il segno di uno dei dioscuri dello storico spazio espositivo, un’ amicizia nata nel 1968, nel primo anno di fondazione, una fiamma tenuta sempre viva attraverso le oltre quindici personali dedicate, Enrico Paulucci. Un dialogo mai interrotto, che possiamo ritrovare nelle immagini, lettere, cimeli conservate gelosamente da Lelio e che ritroveremo, sino al 14 marzo in galleria racchiuso in un ritratto che il pittore donò al suo amico salernitano. Enrico Paulucci, fu un genio eclettico, attraversato da diversi fiumi di passione, infatti, nella stagione 1919-1920 era il “gatto” distratto della prima squadra della Juventus, critico con se stesso sul suo essere calciatore, lasciò la carriera sportiva nel momento in cui giunse Gianpiero Combi a fargli ombra. Dal pallone a Casorati, dalla indelebile amicizia col portierone bianconero a quella con Calvino e Montale, ed in contemporanea, con Chessa, Levi, Galante, Menzio e Boswell, con cui costituirà il “Gruppo dei Sei”, che ha segnato il cammino dell’arte italiana tra le due guerre per la ricerca di nuove strade tra segno e limpido cromatismo, oltre che pittore, Paulucci è stato anche designer di mobili e moda, ma anche scenografo per il cinema e il teatro. Ha allestito scene per la Fenice di Venezia, il Piccolo di Milano e ha collaborato con il regista Alessandro Blasetti per il film “La duchessa di Parma”. Il nome di Paulucci resta legato anche alla fondazione della rivista di architettura e design “Casabella”.Le sue opere hanno fatto il giro del mondo: Londra, Parigi, Linz, Praga, Il Cairo, San Paolo, Stoccolma, Barcellona, New York e i paesi scandinavi solo per citare alcuni dei luoghi che hanno avuto l’onore di ospitare i suoi quadri. Poi, l’incontro con un altro Gatto, stavolta poeta, che lo portò a Salerno e da allora le frequentazioni del luminoso studio di Via Cavour, da parte di Lelio Schiavone e le incursioni di Paulucci in Costiera, in cinquecento, grazie anche alla grande personale a Palazzo Murat, nel 1985, nell’ambito di Positano Top Parade, non si sono più interrotte, sino alla sua scomparsa avvenuta nel 1999. L’elemento di base dell’ispirazione del pittore rimase sempre lo spettacolo della Natura, interpretato con un mezzo d’evasione avuto in dono dalla nascita e che, ancora oggi, non ha bisogno di alcuna riga di critica, anche se le massime firme da Argan a Persico, ne hanno sempre elogiato il segno nuovo; bensì ha bisogno di essere visto per assaporare i rutilanti colori delle marine, dal segno antiretorico di un lirismo sommesso e pacato dei paesaggi liguri e piemontesi a lui familiari (alternava infatti la residenza a Torino a lunghi soggiorni estivi a Rapallo e presso la città materna di Montegrosso d’Asti, mete che gli rimasero care tutta la vita), affollati da personaggi-colore, per lasciarsi trascinare dalla profonda quanto elegante allegria di olii, pastelli, gouache. Da cattedratico di pittura all’Accademia Albertina, introdusse una nuova attenzione nei confronti degli sviluppi dell’arte più recente, mentre nei corsi da lui tenuti, oltre a fornire le basi tecniche agli allievi, si preoccupò di assecondarne le personali inclinazioni affinché la loro “personalità abbia a svilupparsi nel più naturale e libero dei modi”. Fu tuttavia nel secondo dopoguerra, alla luce dei dibattiti coevi tra astrattismo e realismo, che la sua pittura andò incontro a un nuovo mutamento. Questa ricerca si manifestò con la rinuncia alla tavolozza impastata, alla Cèzanne del decennio precedente e con un uso più sintetico del colore, steso a campiture quasi piatte, che nelle nature morte e nelle figure femminili ‘narrate’ in interni sfociava in esiti non immuni da neopicassismo. Parallelamente si mosse verso una sempre maggiore astrazione dal dato naturale nei paesaggi liguri e delle Langhe a lui tanto familiari riscontrabile sia nei dipinti e nella rinnovata pratica del guazzo, sia nelle acqueforti. Nel presentare la sala destinatagli dalla Biennale veneziana del 1954, Giuseppe Marchiori si riferiva efficacemente a queste opere di matura “sintesi pittorica”, come costruite attraverso il “metodo delle pezzature a intarsio”. Nelle opere presentate alla Quadriennale del 1959, nella monografia di Argan (1962) e nella sala personale alla Biennale del 1966 l’allusività all’ambiente naturale si era infine ridotta “al puro rapporto cromatico”, dove l’artista procedeva organizzando “topografie cromatiche sulle due dimensioni”. Un unicum mirato e fonte di ricordi piacevolissimi, specie per chi ha avuto l’onore e la fortuna di conoscerlo, ma anche per chi avrà la possibilità di riandare alla sua eclettica personalità, proprio attraverso la scelta di opere che vedremo esposte al Catalogo.