Questa sera, alle ore 21, il sipario del massimo cittadino si leverà sul capolavoro verdiano mai rappresentato a Salerno che inaugurerà la stagione lirica
Di OLGA CHIEFFI
Fra i titoli che contano del teatro verdiano “La forza del destino” è con certezza il più criptico e controverso, arduo rinvenirne la cifra di identità e mai unanime il giudizio sulle sue parti dette esornative e dispersive. La “Forza del destino”, per la prima volta rappresentata in città, che stasera, alle ore 21, darà il via alla nuova stagione lirica, del teatro Verdi, firmata da Daniel Oren e Antonio Marzullo è un condensato di musica superba e musica prava sul quale molto s’è sempre argomentato, a tacere poi, della taccia di iettatura che l’opera condivide con l’omologo offenbachiano dei “Contes d’Hoffmann”. L’opera sarà affidata alla bacchetta di Daniel Oren che si porrà alla testa di una rinnovata Orchestra Filarmonica Salernitana e del coro del teatro Verdi, preparato da Tiziana Carlini, mentre l’allestimento, estremamente tradizionale, sarà quello del teatro sociale di Rovigo, datato 2009 è stato affidato a Pier Francesco Maestrini. Ma è lecito impostare un’analisi estetica di tal tipo senza indagare quali sensi stiano al fondo delle “bellezze” e delle “pravità” della “Forza”? L’intreccio di questo che Eugenio Montale chiamò “un romanzo d’appendice scritto da un genio”, potrebbe invitare alla definizione di opera centrifuga; e in realtà queste pagine, più che un’opera di personaggi è un raffinatissimo affresco che assume il compito di fungere da entità strutturale, poema cavalleresco o romanzo d’avventura, che si voglia stimare, questa è un’opera che disperde, volontariamente, il proprio nucleo drammaturgico in un disorientante circuito plurimo. I due protagonisti, Alvaro (Walter Fraccaro) e Leonora (Maria Pia Piscitelli) vengono allontanati l’uno dall’altro in seguito a numerosi episodi, i quali sembrano smorzare l’effetto della sola causa che conta, il “respiro possente del destino”. Gli avvenimenti agiscono sulla psicologia dei due infelici e la trasformano in maniera potentissima attraverso tutta l’opera. Per di più, nella distrazione che ci procura un’indifferente vita collettiva, il dolore di Alvaro e Leonora, non è quasi mai assente, anche quando non si nomina; sembra interrogare dall’incognito la nostra coscienza. Già nella Sinfonia, questa visione policentrica è affermata e riassunta, dopo la sigla del tema fatale, lamentoso, tenero e feroce, la fantasia del musicista dà un giro, mescola insieme le maledizioni, gli squarci lirici e fidente, parafrasi di battaglie, cerimonie, rabbiosi assalti. L’atto primo diventa come un prologo esauriente e vitale, col duetto tra Leonora e il padre, casta atmosfera della famiglia, in cui il canto del soprano “Me pellegrina ed orfana” si appoggia a quella timbrica strumentale, a quel cromatismo che anticipa Aida. Entra Alvaro quasi ancora al galoppo, quando la decisione di fuggire è presa, il canto balza in sella con una franchezza di stampo donizettiano. Poi, il colpo di pistola, la tragedia, la furibonda avanzata dal destino. Nell’atto secondo l’ordito passa dalla fine ironia del pasto, dei ritratti di Preziosilla (Ekaterina Semenchuk) e Trabuco (Francesco Pittari), alla finzione antipatica di Pereda, alle macchie di colore un po’ arcaiche del coro di pellegrini diretti alla chiesa, dove poi si recherà Leonora, mentre a completare il cast la Curra di Francesca Franci, il Marchese di Calatrava cui darà voce Nicolas Testè e, un Alcade che sarà Carlo Striuli. Nel convento tutto è raccolto intorno alla devozione di un coro. Il duetto della fuggitiva col padre guardiano (Simone Lim) abbonda di materiale melodico molto diversificato; è chiaro che, nel cuore di lei, il saggio monaco ha preso il posto del genitore defunto, malgrado l’argutissima figura di Melitone (Angelo Nardinocchi) sembri insidiare tanta fiducia. Il finale dell’atto e celebre, una furia fanatica e ottusa che sbocca nella preghiera, dove l’invettiva e l’anatema sono ancora sottintesi. Il panorama si allarga nell’atto terzo alla guerra e al campo di Velletri, l’aria di Alvaro è preceduta dal grande solo di clarinetto, che per l’occasione sarà il giovanissimo Aron Chiesa, che traccia i sentieri della memoria, invasi da una variazione musicale sul tema del Destino. L’irruzione di Carlo (Simone Piazzola) introduce una realtà un po’ enfatica, che si rapporta all’idea maniacale del vendicatore, segue una gamma di attrazioni e sensazioni che rendono quasi olfattiva la vita del campo, la Ronda delicatissima, quasi esotica, il tremito femmineo delle reclute, la predica di Melitone, il popolare “Rataplan”. Il ritorno al convento non manca di altre scene collettive, ospitando le frasi del duetto Carlo – Alvaro, che ormai precipita verso l’atto IV, dove la tragedia si consuma. La melodia di Leonora scende sola, non ha lacrime, lei racconta al suo Dio e sembra che una mano scenda, con breve inciso tematico, a spingere la curva melodica principale. La linea belliniana dei motivi, quando spicca dall’arioso, confida in un’accoglienza oltre la Morte. La maledizione, le ultime convulse battute del duello, l’incontro Alvaro-Leonora, davvero un tragico dialogato, così come la fulminea uccisione di Leonora, passano in fretta. La predica del Guardiano, pur nella sua logica manzoniana, pietosa, è un’immagine che si sovrappone, un ultimo debole riparo alla sventura.