La fiamma olimpica a Salerno nel 1960 - Le Cronache Attualità
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La fiamma olimpica a Salerno nel 1960

La fiamma olimpica a Salerno nel 1960

Di Andrea Orza

Secondo la tradizione olimpica ogni generazioni accende il fuoco per quella successiva. Così la Fiaccola Olimpica incarna la trasmissione dell’eredità sportiva. Domenica scorsala Stazione Marittima di Salerno ha onorato l’arrivo del “totem”. La fiaccola ha percorso un itinerario movimentato per il Sud Italia nel mese di dicembre. Da Reggio Calabria la staffetta ha condotto la fiamma sino in Campania, facendo tappa a Paestum, Battipaglia per poi fare il suo ingresso a Salerno nel pomeriggio. La cerimonia itinerante seguirà nei prossimi giorni nell’area vesuviana verso l’area metropolitana di Napoli. In tempi come i nostri, dove il pubblico è sempre più avverso alle formalità, quasi ai limiti dell’iconoclastia “da tagli del nastro”, la cerimonia di passaggio della fiaccola acquista quasi un fascino dal sapore retrò. Lo sport, quando è autentico, non è solo gesto atletico. È trasmissione. È una fiamma che passa di mano in mano, attraversa generazioni, città, epoche diverse, senza consumarsi mai davvero. La fiaccola olimpica nasce proprio per questo: non per illuminare uno stadio, ma per ricordare che ogni corsa ha senso solo se qualcuno, prima di noi, ha acceso il fuoco. L’occasione è troppo ghiotta per farsi sfuggire un amarcord sulla nostra città in occasione dei Giochi Olimpici di Roma del 1960. Le memorie ricordano che il 23 agosto quella fiamma giunse qui sotto il portico centrale del Comune di Salerno. Il fuoco sacro della tradizione sportiva avrebbe fatto il suo ingresso a Roma per una delle edizioni più cariche e significative della storia. Quella contingenza non fu una semplice staffetta ma un vera e propria liturgia collettiva. A quei tempi lo sport sapeva davvero coinvolgere tutti. La folla assisteva e partecipava commossa all’arrivo della fiaccola. Tra i presenti, come si vede anche nella foto d’epoca, il sindaco Menna, autorità civili e religiose, poi il silenzio toccante e rispettoso e infine un fragoroso applauso. Solo pochi minuti, che sarebbero diventati un autentico momento di memoria condivisa. Colui il quale porta la fiaccola non è mai preso a caso. È un riconoscimento onorevole e riservato a chi incarna lo spirito del sport nella sua forma integrale. Il sacrifico, la lealtà, la disciplina sono qualità fondamentali per ottenere questa investitura. Nel anni 60, lo sport era un duro lavoro di certo non riservato ai deboli di cuore. Ci si allenava in campi di terra battuta, i canestri erano all’aperto, spesso ci si allenava fino a tarda sera senza riflettori. Bisognava avere vigore ma soprattutto carattere. Ed era naturale che il CONI scegliesse come tedofori uomini che quello spirito lo vivevano davvero, lontano dalle medaglie facili. Tra loro c’era Alfonso Pepe. Aveva 26 anni quando ricevette la fiaccola. Non era un atleta qualunque: era già allora una figura profondamente immersa nel mondo sportivo, non solo come praticante ma come uomo di riferimento. Qualche anno prima aveva collaborato all’organizzazione delle Olimpiadi Invernali di Cortina del 1956, sempre su incarico del CONI, segno di una fiducia costruita nel tempo. La sua storia sportiva nasce presto, tra i banchi di scuola, passa dai campionati studenteschi all’ISEF di Roma, dove si forma come insegnante di educazione fisica. Nell’atletica leggera raggiunge risultati di grande rilievo nel salto in alto, toccando la misura di 1,75 metri in un’epoca in cui si saltava ancora “alla vecchia maniera”, atterrando sulla sabbia, senza protezioni. Accanto all’atletica, un’altra passione: la pallacanestro. Giocata per oltre un decennio, fino alla Serie B interregionale, in un’epoca in cui non esisteva il tiro da tre e ogni punto era frutto di tecnica e intuizione. Le cronache lo descrivevano come un tiratore naturale, uno di quelli con la “manina d’oro”. Ma ciò che rende davvero significativa questa storia non è la somma delle discipline praticate. È il filo rosso che le attraversa tutte: l’idea dello sport come scuola di vita. Da insegnante, da dirigente, da collega, Alfonso Pepe ha continuato a trasmettere quel fuoco con la stessa discrezione con cui lo aveva ricevuto. Senza retorica, senza protagonismi, restando sempre fedele a un’etica rigorosa e umana. Negli anni, i riconoscimenti sono arrivati: il Distintivo d’Argento del CONI, l’affetto degli allievi, la stima dei colleghi. E nel 2023, il Premio alla Memoria, assegnato in occasione delle Onorificenze Sportive provinciali. A lui è dedicata la sala dl Coni regionale. Solo allora si comprende che questa non è solo la storia di una fiaccola, né soltanto quella di un grande sportivo. È una storia di continuità. Di come lo sport, quando è vissuto davvero, non finisce con una carriera o con una corsa. Perché Alfonso Pepe oggi non c’è più. Ma la fiamma che ha portato quella sì, continua a camminare. Nello sport salernitano, nei valori che ha insegnato, e nel ricordo di chi sa che certe luci non si spengono: passano.