Di Olga Chieffi
Vinicio Capossela sarà protagonista, stasera, alle ore 21, sul palcoscenico del Teatro Municipale Giuseppe Verdi, di un’esibizione del tutto originale che è interamente dedicata alla celebrazione dei venticinque anni dall’uscita del suo disco “Canzoni A Manovella”.Per questo appuntamento, l’artista, attesissimo, eseguirà integralmente l’album affiancato da un’ampia formazione che riprodurrà sul palco del teatro gli arrangiamenti firmarti da Tommaso Vittorini che hanno reso unica questa iconica registrazione. Nell’occasione l’orchestrazione sarà affidata al maestro Raffaele Tiseo. Sul palco con Capossela ci saranno quindi Mirco Mariani alla batteria, Enrico Lazzarini al contrabbasso, Giancarlo Bianchetti alle chitarre, Achille Succi al clarinetto e al sax, Vincenzo Vasi al theremin e al vibrafono, Raffaele Tiseo al violino e Daniela Savoldi al violoncello. Pubblicato il 6 ottobre del 2000, agli albori del nuovo millennio, vincitore della Targa Tenco come Miglior Album in Assoluto, “Canzoni a Manovella” è il quinto disco di inediti del cantautore e uno dei più intensi e amati della sua lunga e prolifica carriera. Tra le canzoni che poi hanno avuto un percorso del tutto autonomo va ricordata, ad esempio “Maraja’”. Anche per questo era stato accolto con entusiasmo da pubblico e critica, definito “un colpo di cannone futurista a squarciare l’ultimo Capodanno del Novecento, un’opera che cattura l’attimo e lo cristallizza per sempre” e un disco come sempre “fuori tempo nebbioso e geniale”, viene ancora definito come un album di canzoni immaginarie, di cose che vengono dal profondo, che affiorano a galla in scafandro e cilindro. Ci si calerà nelle emozioni nelle suggestioni di musiche, in una specie di abbuffata secolare, come lo descriveva al tempo Capossela stesso. Un lavoro ricco e sorprendente popolato di arie e filastrocche, di marce, marcette e rebetici, di ninna nanne, di canti di mariachi tzigani, di molteplici storie ricche di rimandi letterari ma altrettanto ancorate nella Storia, suonate con una varietà straordinaria di strumenti. Da una manovella si può rimettere in moto un secolo intero e Vinicio Capossela riattiva il secolo breve, un’epoca di ombre, invenzioni, poesia, dove il termine per schizzarlo è cambiamento. Un Novecento fatto di pianoforte, chitarre, ottoni, archi, grancasse, onde Martenot, corni da caccia, cilindri, turbanti e marchingegni d’altri tempi, hanno trasmesso tutta la febbrile frenesia del periodo, tra meraviglie meccaniche e saloni in disarmo. I coups de canon di “Bardamù” in avvio sono stati il segnale di una nuova era di metallo e vapore, mentre la corsa grottesca di “Decervellamento” ha condotto l’orchestra verso le soluzioni immaginarie di Jarry, in un nastro che andava via via riavvolgendosi. Con “Marajà” si aprirà un orizzonte tra esotismo balcanico e satira sociale e l’evocativa “I pianoforti di Lubecca” o la funesta “Marcia del camposanto”, offriranno malinconia e ironia, in un’alternanza di oscurità e festa. Ancora, in quel fragore sarà evocata la memoria delle ferite mai davvero sanate di “Suona Rosamunda” che, nella sua fanfara un po’ ebbra, rivelerà l’incubo della prigionia e della condanna. La struggente “Solo mia” è stata un momento di accorata sospensione e “I pagliacci” avrà sapore felliniano acceso tanto dai tocchi cadenzati dei tasti, quanto dalla performance circense dell’artista Nadia Addis. La canzone finale “Resto qua” è invece una scena struggente di fine spettacolo, quando il pubblico se ne va e l’artista passa rapidamente dal calore degli applausi al freddo della solitudine, mentre “il sipario resta” un addio toccante, tra suoni di archi filtrati da un vecchio grammofono, rumori di giostra e fuochi d’artificio, che aprirà la sequela di bis. “Gli anniversari mi piacciono” aveva detto Capossela in proposito. “Offrono l’occasione di riprendere in mano un’opera nella sua integrità e di risuonarla con i suoi arrangiamenti originali per restituirla al pubblico così com’era nata.” ll capitolo dedicato alle ballate è inevitabile. La magia gitana del tango “Solo mia” deriva da una versione adattata della macedone “Bilo cija” della Kočani Orkestar. Il valzer fiabesco, quindi la serenata blues di “Signora luna” trasporta le suggestioni leopardiane in un western metafisico nello stile di “Dead Man”. Il valzer intriso di malinconia e archi di “Nella pioggia” è un omaggio a Milano, città “zucchero e catrame” come dice Dalla, che brilla di ferro e binari, con il movimento incessante di tram e treni, “che partono ogni ora, ma noi non partiamo” e le insegne che “dipingono amanti dai vetri appannati dal vapore”. Infine, la malinconica rumba anni ’50 di “Con una rosa” (ispirata da “L’usignolo e la rosa” di Oscar Wilde) rappresenta un’outtake: non era una canzone a manovella, ma Capossela la inserisce comunque nel suo repertorio, rapito dalla sua grandiosità melodica, che scivola maestosa tra congas, archi e chitarre jazzate.





