Alfonso Vincenzo Mauro
“Com’è possibile che ogni incontro con Pignataro debba sempre trasformarsi in occasione mangereccia!?” — così, tra il serio ed il faceto, il sempre vulcanico Peppe Iannicelli, giornalista e conduttore radio-televisivo, in esergo alla presentazione de “La cucina napoletana”, sorta di compendium disciplinarum o parva encyclopaedia della copiosa, universale tradizione socio-culinaria partenopea, uscita per i tipi di Hoepli editore e con le foto di Ciro Pipoli. Bel volume graficamente curato. Presente l’autore — noto giornalista, giornalista enogastronomico, e foodblogger ormai quasi antropologo, il cilentano Luciano Pignataro — il firmacopie presso una gremita Feltrinelli di Salerno si è svolta in forma dialogica tra i summenzionati, Peppe Guida, chef stellato, Nicola Pansa, maestro pasticciere, e Andrea De Simone, scrittore e già senatore; e, “cuor presago” quello di Iannicelli, non ha mancato di titillare, ingraziosire la curiosità salottiera di tanta mondanità salernitana con un postludio manducatorio dove la consueta ressa, alcuni volti non ignoti, ha saputo farsi italianissimo onore. “Io son uomo di pace; / e duelli non fo, se non a mensa.” “Pur uomo di Sinistra” chiosa Pignataro “confesso di avere una fascinazione per la nobiltà e il suo nuvolare, naturale distacco” — non sorprenda dunque il contributo prefatorio della “principessa” Giulia Ferrara Pignatelli di Strongoli (ad libitum) al ricettario/atlante antropologico d’oltre 250 pagine lussureggianti di approfondimenti, aneddotica, fotografie. “Dai cafoni, che saremmo noi, sino alla nobiltà, il ragù buono è sempre quello di mammà”, ma ben vengano ricerche e puntualizzazioni che escano dalla cucina di casa. E immediatamente una correzione di tiro, precisando come quella partenopea, o se si preferisce campana sensu lato, fosse una Cucina popolare e del popolo, capace di nobilitarsi nell’arrangiarsi, nelle sue aspirazioni di qualità della vita, e dunque qualità della tavola, pur nella sostanziale povertà economica e scolare anche precedente l’unificazione — checché ne ciarlino alcuni profeti pennivendoli a sonagli pseudo-revisionisti, e altrettante assurde politicizzazioni capaci di compiere il giro dell’emiciclo rappresentativo e, “molti son li animali a cui s’ammoglia”, pasteggiare gomito a gomito con ipotesi federative per nulla amiche della meridionalità. Utili idioti alcune cui tesine il sempre impeccabile Pignataro è capace di blandire e problematizzare. Anche in questa occasione. Mentre tiepida e molle la sala iniziava a olezzare soavemente prelibando la degustazione finale, Iannicelli ha assegnato ai relatori il compito di scegliere e argomentare al pubblico un ingrediente iconico-rappresentativo: De Simone, di parte, la cipolla ramata di Montoro, e le sue trasmogrificazioni dalla Genovese al dolce (sic!); Peppe Guida il buono e tracciabile l’olio extravergine d’oliva, magari appena molito; Pansa, “factionis Amalphiae”, il celeberrimo limone. De Simone ha approfondito il circolo virtuoso che l’insistenza sui prodotti locali (coltura e cultura) sa intessere coi e nei territori da tutelare ambientalmente e umanamente — nel segno d’una sostenibilità sempre oziosamente vagheggiata ma stavolta forse nel suo piccolo (nei suoi piccoli) effettivamente ed efficacemente conseguibile; Guida ha elogiato nella non-pretenziosità quella efficacia e verità le quali anche hanno convinto produzione e troupe della serie Netflix “Watch the chef’s table” di un cui episodio è stato noto protagonista — esemplificando quelle ricette al pesce o alla carne “fuiuta”; Pansa ha rimarcato come una Cucina dignitosa, al contempo povera per necessità e opulenta per hybris (per sfregio alla povertà stessa), sapesse sorprendentemente raffinarsi per poliedriche identità nella pasticceria, comprimaria in Italia solo con quella siciliana; ha altresì invitato, spoilerando tra i “wow” di un pubblico non inerte all’accaparramento dello status symbol natalizio, alla presentazione del “panettone delle repubbliche marinare” involto in carta d’Amalfi. Absit iniuria verbis, un’operazione d’un certo interesse. A righe bianche e blu, questo Deuteronomio della kalophagía campana, della simposiarca convivialità gastronomico-normativa che, sineddoticamente, “è poi ossatura del Made in Italy e della identità culinaria nazionale intera”, è onnicomprensiva riedizione rivista, ampliata ed arricchita — con attenzione “non museale” alla tradizione, ma che incida positivamente sul tessuto socio-economico-ambientale, e tenga conto della diversità e ricchezza delle nostre materie prime e delle “positive, strutturali contaminazioni non solo culturali nella storia della nostra Cucina”. Per una cultura dell’accoglienza anche culinaria, dove lo stare insieme anche tra diversi è sempre stato tratto caratterizzante. Alla faccia dei nostalgici di una popperiana società chiusa. “Poiché Napoli non ha mai costruito muri” e “l’identità non si coniuga al passato” fosco di connotazioni etnocentriche deleterie, “ma al futuro”.





