La crisi dell’ex Ilva, oggi Acciaierie d’Italia (AdI), è precipitata in una mobilitazione nazionale che ha trovato a Salerno uno dei suoi centri più determinati. Lo stabilimento campano, anello cruciale della catena siderurgica nazionale, è in sciopero, e il destino dei suoi lavoratori si riflette nel clima di incertezza che avvolge l’intero Paese. Sebbene il dibattito pubblico sia spesso polarizzato sull’enorme polo di Taranto, anche la realtà salernitana paga un prezzo altissimo a fronte del rischio di “chiusura” paventato dal Governo, un disegno che, secondo i sindacati, mette in discussione l’occupazione di circa 20.000 persone tra dipendenti diretti, indiretti e appalti. Per Salerno, la vertenza è tanto economica quanto identitaria. L’impianto contribuisce in modo significativo al tessuto produttivo locale e la sua potenziale chiusura o ridimensionamento genererebbe un effetto domino sull’indotto, un impatto che in una regione del Mezzogiorno come la Campania rischia di essere particolarmente devastante e difficile da assorbire. La gravità della situazione ha spinto i lavoratori di Salerno, al pari di quelli di Genova, Novi Ligure, Taranto e Racconigi, a incrociare le braccia. La preoccupazione locale ha raggiunto il culmine quando il Ministro delle Imprese e del Made in Italy, Adolfo Urso, ha inizialmente convocato un tavolo tecnico per il 28 novembre dedicato esclusivamente agli impianti di Liguria e Piemonte. Questa mossa, concentrata sulle necessità del Nord, ha generato un profondo malcontento e la sensazione di essere ignorati, amplificando il timore che il Sud Italia, e in particolare Salerno, venisse trattato come un problema secondario nella definizione delle strategie industriali future. Si è trattato di un’esclusione che ha fatto rumore: mentre il Governo si preparava a discutere il destino di Genova-Cornigliano e degli stabilimenti settentrionali, Salerno risultava esclusa da questa prima convocazione. Ancora più significativa era l’assenza di Taranto—sede che, da sola, ospita la maggior parte dei dipendenti di tutte le sedi Ilva italiane. Questa iniziale impostazione ha fatto temere ai lavoratori campani e pugliesi che la prospettiva di “integrità e continuità produttiva di tutti gli stabilimenti”, richiesta a gran voce, potesse essere compromessa da un approccio frammentato e geograficamente sbilanciato. Di fronte a questa percezione di divisione, le organizzazioni sindacali si sono mostrate coese. I segretari generali di Fim-Cisl, Fiom-Cgil e Uilm-Uil, Ferdinando Uliano, Michele De Palma e Rocco Palombella, hanno accusato il Governo di tentare di “dividere territori, lavoratori e organizzazioni sindacali”, un tentativo che hanno dichiarato essere destinato a fallire. L’esito delle assemblee, nelle quali i lavoratori hanno preso coscienza della serietà del momento, ha portato alla decisione di attuare “iniziative di mobilitazione forti, decise e radicali” in tutto il Paese.L’appello delle sigle metalmeccaniche è stato rivolto direttamente alla Presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, affinché si assuma la piena responsabilità della situazione, ritiri il “piano di ‘chiusura’ presentato negli scorsi incontri” e garantisca, come condizione fondamentale, “l’integrità e la continuità produttiva di tutti gli stabilimenti”. I sindacati hanno invocato un “intervento concreto e istituzionale che assicuri una prospettiva occupazionale e sostenibile ambientalmente” per un settore che considerano vitale e strategico per l’intera nazione. La richiesta è stata estesa a tutte le forze politiche e sociali, per ottenere il pieno sostegno alla lotta delle lavoratrici e dei lavoratori. La pressione sindacale e quella del presidente della Regione Puglia hanno avuto un effetto immediato sullo scacchiere governativo. Il Ministro Urso ha fatto marcia indietro, accogliendo l’esigenza di un approccio unitario. L’incontro, già previsto per il 28 novembre a Palazzo Piacentini, è stato trasformato in un tavolo unitario e allargato. Questo appuntamento cruciale vedrà la partecipazione non solo delle organizzazioni sindacali nazionali e territoriali, ma anche dei rappresentanti delle Regioni Puglia, Liguria e Piemonte, insieme agli Enti locali nei cui territori hanno sede gli stabilimenti. La presenza del Ministro del Lavoro, Marina Elvira Calderone, e dei rappresentanti di altri dicasteri competenti sottolinea la volontà di affrontare la questione in modo olistico, riconoscendo la necessità di una soluzione che tenga conto della dimensione nazionale e delle sue diverse articolazioni territoriali, anche se questo riconoscimento è giunto dopo l’iniziale, preoccupante, focus settentrionale. L’incontro allargato seguirà, senza soluzione di continuità, la riunione inizialmente circoscritta al Mimit e dedicata specificamente agli impianti del Nord, creando un unico, seppur articolato, momento di confronto. Sul fronte politico, l’intenzione del Governo è stata espressa chiaramente dai parlamentari liguri di Fratelli d’Italia, i deputati Matteo Rosso e Maria Grazia Frijia e il senatore Gianni Berrino. Il partito di maggioranza ha ribadito che “garantire i posti di lavoro e mantenere l’asset strategico della siderurgia in Italia è stata sin da subito l’intenzione del Governo, confermata anche nell’ultima riunione a Palazzo Chigi”. Nel loro comunicato, Fratelli d’Italia ha affermato che il Governo sta lavorando per “preservare occupazione e mantenere produzione”, sottolineando che l’obiettivo finale è proprio quello di “mantenere gli impianti preservando l’occupazione”. Pur comprendendo le preoccupazioni espresse dai lavoratori e dall’indotto, come ha evidenziato il presidente del consiglio regionale della Liguria Stefano Balleari, è stato lanciato un forte appello alla responsabilità e alla calma. Balleari ha chiesto a “lavoratori e cittadini, uno sforzo per non esasperare una situazione davvero complessa”, definendo il momento “delicato” non solo a livello locale e regionale ma anche per l’Italia intera. Il messaggio è chiaro: l’esecutivo chiede collaborazione e un approccio responsabile da parte di tutti per uscire dalla crisi senza compromettere la stabilità industriale e sociale. La speranza per i lavoratori di Salerno e per tutto il Mezzogiorno è che il tavolo del 28 novembre non si limiti a un mero adempimento formale, ma definisca una traiettoria industriale credibile e sostenibile. Il futuro dell’acciaio italiano e di migliaia di famiglie pende da questo appuntamento, chiamato a ricucire le distanze geografiche e le tensioni sociali acuite da una gestione della crisi che, seppur corretta in extremis, ha inizialmente dato l’impressione di anteporre le priorità territoriali del Nord a quelle dell’assetto produttivo globale della nazione.





