Salerno. Messa in latino a S. Giorgio - Le Cronache Salerno
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Salerno. Messa in latino a S. Giorgio

Salerno. Messa in latino a S. Giorgio

Nicola Russomando

Da domenica 1° giugno iniziano regolari celebrazioni nella forma della liturgia preconciliare nella splendida chiesa di S. Giorgio in centro storico a Salerno. L’arcivescovo Andrea Bellandi ha accolto la richiesta che gli è stata formulata dal gruppo stabile di fedeli, costituito in diocesi sin dal 2015, per l’ampliamento del numero delle messe “usus antiquior”. Il predecessore Moretti aveva concesso due sole celebrazioni mensili e mai in concorrenza con le maggiori solennità liturgiche, mentre oggi, con l’ultimo provvedimento, si ha la possibilità di beneficiare a Salerno del rito antico ogni domenica, nell’alternanza con le analoghe celebrazioni che si tengono ordinariamente ad Acigliano presso la chiesa di S. Magno. Il caso di Salerno è in qualche modo rivelatorio dell’atteggiamento nutrito dai vescovi verso la riforma voluta da Benedetto XVI con il suo motu proprio “Summorum pontificum”. Infatti, Ratzinger nel 2007 aveva totalmente liberalizzato il rito antico riconoscendo ai fedeli la facoltà di richiedere tale celebrazione senza assenso preventivo del vescovo diocesano. Nonostante il chiaro dettato papale, Moretti aveva comunque subordinato le celebrazioni alla sua autorizzazione e nei limiti imposti dalla sua visione della liturgia. Di fatto Salerno anticipava quanto poi deciso nel 2021 da papa Francesco con “Traditionis custodes”, che abrogava la disciplina in materia voluta dal suo predecessore, riconduceva la messa in rito antico all’autorizzazione del vescovo, escludendola in ogni caso dalle chiese parrocchiali, vietava la costituzione di nuovi gruppi di fedeli aderenti alla liturgia preconciliare. Non si è mai sottolineato a sufficienza che “Summorum pontificum” ha rappresentato un atto rivoluzionario nella storia della Chiesa, spostando l’asse in materia liturgica dal clero al popolo con la facoltà riconosciuta di chiedere la forma celebrativa “extraordinaria” a condizione di reperire un sacerdote idoneo, in primis padrone della lingua latina. Atto rivoluzionario di un pontefice classificato come conservatore, se non reazionario, che ha visto però il progressista Francesco assumere posizioni censorie, ispirate ad autentico autoritarismo. Nella realtà la posta in gioco di “Summorum pontificum” era molto più elevata della semplice liberalizzazione o del recupero del movimento lefebvriano che ha mantenuto sempre viva la tradizione liturgica fino a concepire uno scisma per salvaguardarla. L’obiettivo è stato dichiarato dallo stesso Benedetto XVI allo scopo che “le due forme dell’unico rito romano” si influenzassero a vicenda nella prospettiva di “una riforma della riforma”. Tale obiettivo non sembra essere colto neppure dai sostenitori del rito antico, che ritengono che sia solo il nuovo rito a dover essere plasmato sull’antico, laddove, per il fedele cresciuto nella chiesa del Vaticano II, risulta impervio accettare parti della messa interamente sottratte all’ascolto, recitate “submissa voce” dal celebrante. Il canone della messa in primo luogo, cioè tutta la liturgia eucaristica, che nella sua formulazione, risalente a Gregorio Magno, fa rivivere anche plasticamente l’Ultima Cena. Eppure il superamento di questa rigida impostazione, che ha scaurigini nei culti misterici pagani, era stata già avviata dalla riforma liturgica di S. Pio X agli inizi del Novecento, che introduceva la “messa recitata” con la recita del Salmo 42, “Introibo ad altare Dei”, affidata all’alternanza di versetti tra celebrante e fedeli, con la possibilità di recitare anche per intero, e non solo nell’ultima invocazione, il “Pater noster”. Da questi presupposti è partita la riforma liturgica del Vaticano II, che, se è andata oltre la lettera della costituzione conciliare, rappresenta un processo irreversibile nella continuità organica dell’unico soggetto-Chiesa. Qualsiasi cosa si intenda per “actuosa participatio”, la partecipazione è attiva nella misura in cui non può prescindere dal coinvolgimento consapevole del fedele nella celebrazione. Questa visione del confronto tra antica e nuova liturgia è stata riproposta di recente in un suo articolo dall’arcivescovo di San Francisco Salvatore Joseph Cordileone, da sempre sostenitore del rito antico. Il presule statunitense, sul presupposto della reciproca influenza, si chiede che cosa si affermerà come definitivo nel superamento graduale della dualità, se le letture proclamate in “lingua vernacola” dall’ambone o il canone recitato “a voce bassa”. Difficile prevedere l’esito di un tale processo fintantoché le due forme liturgiche resteranno rigidamente separate specie nella prassi dei loro cultori. Intanto questa si presenta come la vera sfida per papa Leone XIV, che è chiamato a confrontarsi con le contrapposte visioni sulla liturgia dei suoi immediati predecessori. Dal pontefice regnante dipenderà il mantenimento di “Traditionis custodes” o la sua abrogazione in favore della reviviscenza di “Summorum pontificum” che proprio da frange significative dell’episcopato statunitense sembra essere fortemente auspicata.