Successo di critica e pubblico per lo spettacolo inaugurale della stagione di prosa del Teatro Verdi di Salerno, con assoluti protagonisti i dieci interpetri e attrezzisti agli ordini del regista Daniele Finzi Pasca
Di Gemma Criscuoli
Nell’osservare ciò che accade in scena, risulta naturale dare ragione a Giambattisto Marino (“E’ del poeta il fin la meraviglia”), ma Titizè – A venetian dream è ben oltre questo assunto: la carica evocativa dei movimenti e del suono conduce lo spettatore dove non avrebbe immaginato di giungere. Ha aperto con pieno successo la stagione di prosa del Teatro Verdi lo spettacolo di Daniele Finzi Pasca con Gian Mattia Baldan, Andrea Cerrato, Francesco Lanciotti, Luca Morrocchi, Gloria Ninamor, Caterina Pio, Giulia Scamarcia, Rolando Tarquini, Micol Veglia, Leo Zappitelli. Le musiche, eseguite dall’Orchestra di Padova e del Veneto diretta dal Maestro Pasquale Corrado con la partecipazione del Coro Città di Piazzola sul Brenta, portano la firma di Maria Bonzanigo, la scenografia è a cura di Hugo Gargiulo, assistito da Matteo Verlicchi, mentre i costumi sono di Giovanna Buzzi. Che l’allestimento sia un atto d’amore verso Venezia, a cui rimandano maschere, costumi, il titolo stesso, che significa tu sei, è, per così dire, solo l’inizio del viaggio. Nella bellezza dei quadri proposti, infatti, il pubblico è spinto a rintracciare sensazioni nel modo più libero possibile. Da qui la scelta di annullare qualunque confine tra palco e platea nel momento in cui gli interpreti si muovono tra gli spettatori, magari con la sagoma di un impetuoso cavallo o inviando un delfino telecomandato sulle teste di chi osserva. Nel giocare con tutte le possibilità espressive del corpo, tra prodigiose scalate, sospensioni, funambolismi che intrecciano grazia e passione, si apre il ventaglio delle interpretazioni senza sottrarsi ad alcuna suggestione, che si tratti delle influenze di Tiepolo e Longhi o delle composizioni di Vivaldi e Donizetti in un tessuto sonoro originale. Quando uno degli interpreti percorre una pertica come se la gravità non esistesse, sta esortando a sperimentare l’attrazione verso il mondo onirico e a non temere di ripiombare verso il basso, dove sembra che tutto sia chiaro e definito. Nel confronto tra un eroe in armatura malamente sbatacchiato di qua e di là e un raffinato controtenore non vi è solo il rimando all’Orlando furioso, ma si contrappone la forza della musica, che sa sopravvivere a tutto, al convulso e assurdo succedersi degli eventi umani. La partita di badminton, in cui si misurano gli artisti impegnati poco prima in una performance alla glassarmonica (strumento associabile all’acqua di Venezia, ma anche alla fluidità dei pensieri) ricorda l’importanza della dimensione giocosa nelle azioni e nelle consuetudini, al punto di poter affermare che giocare (jouer significa recitare in francese, non a caso) diventa sinonimo di vivere, anche se le regole vengono continuamente e sarcasticamente riscritte. Anche l’esibizione del mago, a conclusione della quale una delle protagoniste dovrà andarsene con una lama conficcata nella schiena, mentre assistenti vestiti da insetti sono ironici complici, pone in evidenza il fascino inossidabile dell’illusione. La maestosa sirena che sovrasta ondeggiando i bagnanti, pronta a scacciarli capricciosamente, è un invito ad abbandonare la rigida razionalità e al tempo stesso, nella sua aura fiabesca, mostra la vanità delle frontiere tra un ambito e l’altro, tra una percezione e l’altra. Il cerchio in cui si sovrappongono un uomo e una donna bendata (la vista comunemente intesa non soccorre, quando emerge ciò che si ha dentro) in un continuo ondeggiare (il tempo è ciclico) fa da controcanto all’esibizione di due figure che, sospese in uno spazio delimitato dai laser come se fossero in un prisma, si cercano, si uniscono, si allontanano, restituendo sacralità all’unione dei corpi, mentre un interprete diffonde fumo con indosso una maschera di maiale. Si ha, così, una sorta di moderno turibolo, mescolando levità e dissacrazione. Innovazione e tradizione si danno la mano, se, per esempio, si gira in cerchio in tre su una bici intonando una filastrocca per Goldoni: nulla viene davvero dimenticato, se si traccia il periplo della fantasia. In questa festa dei sensi, risulta coerente la telecamera, puntata dall’alto su attori che agiscono restando a terra e comunica, quindi, l’idea che si trovino su un piano verticale coloro che in realtà sono su un piano orizzontale. Visioni, dinamiche, spazi sono, dunque, energicamente ripensati senza trascurare aspetti esoterici (gli attori con maschere di elefanti e rinoceronti nella conclusione). Le geometrie degli acrobati vestiti da Pulcinella catturano lo sguardo nell’ultima fase della messinscena. La malinconica e ammaliante leggerezza delle figure induce a comprendere che il teatro è la risposta e c’è sempre un altrove da respirare.