Di Gemma Criscuoli
Quegli occhi perennemente addosso. L’urgenza –di più: la costrizione- di dare sempre un senso a ciò che si fa. Sapere che spostarsi, cioè cambiare prospettiva, non porta a nulla. Come diavolo può fare un attore a fronteggiare un logoramento simile, soprattutto se è la vita stessa un eterno, illogico impasse? Spettacolo di rara intelligenza sulla fruttuosa inutilità del palco, “Opera didascalica” del collettivo Ctrl+Alt+Canc ha segnato, presso il Piccolo Teatro del giullare, una nuova tappa nel percorso di Mutaverso, la stagione curata da Vincenzo Albano e incentrata su GEOgrafie, la sezione sulla drammaturgia campana. L’autore, regista e interprete Alessandro Paschitto, Raimonda Maraviglia e Francesco Roccasecca hanno anticipato i loro progetti futuri nel dibattito condotto dal giornalista Michele Di Donato : una “Vita di San Genesio”, che sta impegnando i protagonisti in una residenza artistica in Toscana e “Sesso”, che indagherà gli incerti confini di genere. Il limite tra scena e platea, intanto, è del tutto inesistente nell’allestimento proposto con successo, ben oltre ogni forma metateatrale: si inizia a luci accese, i tre, senza alcuna scenografia, osservano a lungo il pubblico tra perplessità e disincanto, il sipario è presente solo per quei brevi istanti in cui si vorrebbe sfuggire invano all’attenzione di chi osserva. Ogni gesto, ogni silenzio è un’implacabile e ironica scarnificazione di qualsiasi attesa propria dei fruitori del teatro. Il titolo stesso è antifrastico, perché nulla può essere chiarito e insegnato dove il vuoto mangia vivi e la pressione di riconoscersi in una categoria schiaccia più di un macigno. L’attacco all’assodato inizia dalle antiche bugie, lo spazio e il tempo. Il luogo in cui si recita dovrebbe essere quello in cui una realtà alternativa prende forma, magari indicando una via, ma se il semplice andare da un punto all’altro deve presuppore un avvenimento, legarsi a un messaggio, essere inquadrato in qualcosa di riconoscibile per poi risultare meno di zero, si resta a metà strada tra potenza e atto o, per meglio dire, perdono spessore sia l’una che l’altro. Quando gli attori invitano gli spettatori a tossire con accompagnamento di fischietto sulla parola qualcosa, anche il coinvolgimento di chi osserva è sarcasticamente fatto a pezzi: tanta fatica a cercare emozioni, mentre sarebbe bastata una bella broncopolmonite! Tutti i tentativi di proporre una narrazione coerente, dalla disperata Cassandra al giovane in lacrime con un uccello impagliato, passando per la svampita casalinga desiderosa di sedurre un idraulico restano monchi, perché la trama, definita l’affannato muoversi tra i mobili, cioè l’imboccare un sentiero chiaro, non può più bastare al disagio di essere lontani dagli appigli. Anche farsi un selfie mentre il proprio volto è coperto da uno specchio non è la risposta: a cosa può condurre riflettere quelle immagini in cerca di collocazione che sono gli astanti? Ecco perché l’attrice vorrebbe essere una cosa: nessuna aspettativa, nessuna responsabilità. Diventa, a questo punto, naturale che uno degli attori vada alla postazione luci (un improbabile faro da discoteca si accende di tanto in tanto, a dimostrare il peso di essere sempre e comunque al centro dello sguardo altrui): se ogni schema salta, il concetto stesso di ruolo e imitazione – scomodando Aristotele- si sgretola e l’uomo rimasto realizza i pensieri della donna in un confronto serrato sull’assenza, intesa come ripensamento del tempo e bisogno di riempire un vuoto d’aria, un pezzo di niente. Il telo bianco che scende e ricorda la pagina lasciata vuota nelle pubblicazioni accademiche è un manifesto programmatico: si può solo riflettere la fuga dal solco prefissato, ascoltando chi si perde nel buio della solitudine, esattamente come fa, nella conclusione, l’attrice verso il regista. “Forse, dico forse, un giorno apparirò”, dice. Non sappiamo quanto l’epifania del ritrovarsi sia possibile, ma il teatro sa ascoltare, anche quando tutte le altre luci si spengono.