Aste e camorra: la denuncia di Pasquale Di Luccio - Le Cronache Ultimora
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Aste e camorra: la denuncia di Pasquale Di Luccio

Aste e camorra: la denuncia di Pasquale Di Luccio

di Peppe Rinaldi

Se fosse accertato soltanto il venti per cento di quanto contenuto nelle denunce presentate il 30 agosto e il 4 settembre scorsi alla procura della repubblica di Napoli contro due magistrati di Salerno, ci sarebbe non da meravigliarsene – in quanto nessuno è sottratto alla potestà delle leggi – bensì da interrogarsi su cosa sia potuto mai accadere prima. Intanto, cominciamo col dire che il denunciante è un ex colonnello della Guardia di finanza, Pasquale di Luccio, di Capaccio, oggi imprenditore zootecnico e caseario in pesanti difficoltà a causa dell’incrocio fatale di sventure finanziarie, personali e familiari, procedure civili esecutive contorte, disinvoltura apparente del pubblico ministero (genericamente inteso) nel trattare il problema e appetiti di consorterie economiche dal tratto – come si dice spesso anche a sproposito – «inquietante», determinato dalla componente camorristica che in certi contesti non manca mai. Destinatari delle sue doglianze, peraltro antiche, sono due magistrati civili di Salerno dei quali omettiamo i nomi, non foss’altro perché stiamo parlando di una cosa ancora lontana dal delinearsi dal punto di vista giudiziario, altra cosa è il nome del denunciante. Se, però, questa specifica circostanza delle recenti denunce è ancora in fase embrionale, non lo sono le vicissitudine sin qui maturate dentro una storia che ha dell’incredibile, per quanto non inedita: chi abbia una minima esperienza di ciò che spesso accade nelle procedure esecutive immobiliari e nelle relative aste giudiziarie afferrerà al volo il concetto.

Quando tutto cominciò

Nel 2012 la famiglia dell’ex finanziere contrae un mutuo con un istituto di credito, prestito che non riuscirà ad onorare nei tempi e nei modi concordati, nulla di strano, è successo a miliardi di esseri umani e succederà ancora. Il punto è che di lì in avanti per la famiglia Di Luccio si spalancheranno le porte dell’inferno, fino a giungere all’oggi: il 13 novembre prossimo, infatti, si terrà l’ennesima vendita all’incanto di uno dei beni di famiglia, peraltro neppure gravato da vincoli ma, inspiegabilmente, in via di trasferimento definitivo nelle mani di un soggetto terzo il cui nominativo, in sé, autorizza a mille domande e preoccupazioni. Parliamo di un noto clan di camorra dell’area pestana-ebolitana operante sin dagli albori del crimine organizzato del boss Raffaele Cutolo (il fondatore e patriarca del clan, morto da pochi anni, gli offrì rifugio durante l’ultima latitanza) e oggi incarnato in forme legali e paralegali da discendenti, congiunti, affini e prestanome vari, attivi nel settore zootecnico, caseario, immobiliare e turistico-ricettivo tra Capaccio, Eboli e Agropoli e in altre località d’Italia del nord. Questo stando a quanto si legge nelle diverse e ripetute relazioni dell’antimafia sulla famiglia e sul cospicuo patrimonio collegato.

Sarà così, non sarà così, ma chi si trova ad aver a che fare con questi ambienti di certo non vive giorni sereni: come nel caso della famiglia di Di Luccio, ridotta in brandelli nonostante una situazione patrimoniale iniziale solida e sulle cui spoglie oggi danzano per quattro spiccioli figure di dubbia provenienza, cose che l’autorità giudiziaria dovrebbe già conoscere bene. Di questa storia si occupò, per quanto parzialmente, anche Report che vi dedicò un servizio nel giugno del 2018. Anno in cui avvennero anche altri fatti «strani», come minacce e intimidazioni addirittura su una bambina di pochi anni che qualcuno non della famiglia pare si stesse preparando a prelevare dalla scuola, dopo una finta telefonata, fingendosi parente della stessa: si trattò, al tempo, di evidenti minacce del genere “sappi che nessuno della tua famiglia è al sicuro”.

Oggi le cose sono peggiorate, perché al danno dell’infiltrazione mafiosa nelle procedure esecutive si è (sarebbe) aggiunto il carico da 90 di una contestata inerzia/complicità della magistratura, che avrebbe potuto bloccare tutto e non l’ha (avrebbe) fatto nonostante sia stata avvertita del boccone che il clan era prossimo a ingoiare grazie a posate e stoviglie tecnicamente legali.

Allarme inascoltato

Da qualche anno il colonnello Di Luccio (che Cronache ha incontrato nei giorni scorsi) urla e sbraita che “la camorra si sta mangiando tutto il patrimonio di famiglia con la complicità di una serie di persone, tra periti, consulenti e magistrati, da me indicati per nome e cognome in denunce ed esposti su cui nessuno vuole indagare per davvero”. Per chi non volesse credergli o avesse dubbi sulla fondatezza di questo allarme esistono documenti, carte e passaggi tecnici che sembrerebbero in linea con il merito delle denunce. E allora perché nessuno interviene visto che, tra le altre cose, esistono leggi ad hoc che proteggono le vittime del crimine organizzato, anche in casi come questi? Il problema (nel problema) è tutto qui. Appunto, perché? Qui rischiamo di tornare alla notte dei tempi, obbligandoci a riconsiderare le dinamiche perverse che si fondono tra loro nei meandri dei sottoscala e dei corridoi dei tribunali, specie di quelli fallimentari e, in generale, delle procedure esecutive: tempo sprecato, nessuno può impedire che quei posti si trasformino in autentici scannatoi di disgraziati (ma, spesso, anche di semplici sprovveduti o avventurieri) precipitati nella melma del fallimento economico e finanziario, però fare una bella sanificazione dell’ambiente, almeno di tanto in tanto, sarebbe utile.

Inutile ripercorrere adesso tutte le fasi della vicenda, in sé contorta e di non facile traduzione per un pubblico digiuno di certi argomenti molto tecnici: ciò che conta, ora, è lo sviluppo successivo agli eventi iniziali di un’avventura imprenditoriale sfortunata, fattasi incubo vivente e concreto di un’intera famiglia. Si aggiunga che questa storia potrebbe farsi esplosiva laddove venga approfondita veramente, almeno stando a quanto emerge dalla ricostruzione puntuale ed analitica dell’intero fascicolo giudiziario. Ma questo, ovviamente, dipenderà dal se e dal come la procura di Napoli, stimolata sul punto e unica nella condizioni di agire a causa del presunto coinvolgimento di toghe di Salerno, intenderà andare a fondo. Vedremo.

Ora, al di là del fatto che gli epigoni di questo clan di camorra, in un certo senso rivestiti di legalità formale, abbiano già messo le mani su una bella fetta di patrimonio dei Di Luccio, riuscendo a comprare per poche centinaia di migliaia di euro beni dal valore milionario tra stalle, macchinari per la produzione del latte, animali, terreni e quant’altro, e ci sia riuscita nonostante le denunce presentate dalle vittime, va aggiunto adesso che il trauma finale, diremmo esiziale, s’è avuto negli ultimi tempi per il fatto che la spoliazione dei cespiti continua anche in presenza di “violazioni di legge operate dallo stato”, come lamenta l’ex finanziere, là dove per stato si intenda il parterre di Ctu, custodi e periti vari nominati dal tribunale. Un esempio? Di Luccio scopre che i beni sottoposti a pignoramento dalla banca creditrice non sono quelli individuati dal contratto di mutuo, pertanto non possono finire all’asta. Problema risolto o almeno rimandato? Macché, è proprio qui uno dei punti dolenti della storia, tant’è che nonostante la vittima abbia fatto presente la cosa nelle sedi opportune, da quell’orecchio sembrava non sentirci nessuno. E, dunque, primo colpo da knock-out per i Di Luccio. I beni non solo passano di mano ma finiscono proprio nelle mani di una società la cui composizione sociale dovrebbe far saltare sulla sedia un qualsiasi sostituto procuratore della repubblica. Ovvio che Di Luccio si senta legittimato a sospettare che qualcosa non quadri e già negli scorsi anni si rivolge alla procura di Napoli denunciando magistrati e consulenti salernitani. Solo che una volta fatta la denuncia a Napoli – autorità che secondo la legge avrebbe potuto/dovuto bloccare la procedura esecutiva in presenza di certe caratteristiche – passano due anni invano, finché il pm partenopeo prende in mano il fascicolo e, incredibilmente, rimanda tutto a Salerno. Le carte dalla Dda finiscono alla procura ordinaria, poi se ne perdono le tracce. Nel frattempo gli «acquirenti» dei beni comprati in aste alle quali nessuno si sognava di partecipare una volta informati di chi vi avesse mire precise, oppure aste dove partecipavano persone convocate alla bisogna dagli stessi compratori per regalare una parvenza di regolarità della seduta, man mano venivano trasferiti sotto gli occhi esterrefatti della famiglia Di Luccio.

Un altro esempio? Un custode giudiziario scelto dal tribunale negli elenchi dei consulenti di Catanzaro (erano finiti quelli locali?), a sua volta destinatario poco tempo fa di una misura cautelare del tribunale calabrese, poi annullata dal Riesame, per una presunta «cricca delle aste» in loco, riesce a trasferire alcuni beni dei Di Luccio direttamente alla madre dell’imprenditore in odore di camorra e senza coinvolgere il legittimo proprietario col quale aveva poco prima raggiunto un’intesa per l’affitto aziendale. Ancora un altro esempio? Il colonnello Di Luccio lo scorso anno dona alcuni beni liberi da vincoli e gravami ad uno dei figli: ebbene, anche questa azione diventerà invisibile al tribunale che, supportato dalle perizie, risucchierà l’immobile nel mare magnum del patrimonio già ingoiato dal «clan» direttamente, come se quel negozio giuridico non fosse mai avvenuto. Spieghiamo: un debitore ci prova sempre, comprensibilmente, a salvare il salvabile prima che finisca in mano altrui, specie se il bene non è gravato da ipoteca, pegno o altro. Il creditore, altrettanto comprensibilmente, proverà a recuperare tutto ciò che rientra nel possesso, nella proprietà o in altri diritti reali del debitore: per questo c’è la legge con uno strumento preciso che si chiama «revocatoria», vale a dire l’annullamento della donazione, della vendita o di altro trasferimento di diritti sulle cose. Ma pure per questo c’è un rito da osservare scrupolosamente, non è che sia acqua fresca che scorre aprendo semplicemente un rubinetto. Nel caso di Di Luccio avviene, secondo quanto si legge, l’incredibile: vale a dire che il tribunale, su iniziativa del custode giudiziario autorizzato dal giudice, trasferisce il bene dai Di Luccio alla società «del clan» ignorando completamente la donazione, come se non fosse mai avvenuta. Avrebbe dovuto esercitare prima l’azione di revocatoria e, una volta perfezionato l’iter di legge, annullare eventualmente la donazione in favore del figlio dell’ex ufficiale. Niente da fare, il bene viene trasferito alla società acquirente come se non fosse mai successo nulla.

Messa così, appare evidente che ci sia qualcosa che non quadri, poi, certo, si vedrà. Ecco perché ora la partita si è spostata di nuovo a Napoli, dove la posizione dei due magistrati salernitani sarà, o dovrebbe essere, passata ai raggi X per capire dove sia la verità.

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