Rovi, sterpaglie, rifiuti, distruzione. Non poteva toccare sorte peggiore alla antichissima chiesa di San Nicola de Pumbolo, nella via omonima di Paradiso di Pastena. Un luogo lontano dal palcoscenico del centro storico salernitano, quasi sconosciuto, incredibilmente importante. Le informazioni storiografiche a riguardo sono estremamente scarne, grazie all’aiuto dell’archeologa medievista Angela Corolla sappiamo che la chiesa compare nella documentazione giunta fino a noi con la relazione delle decime pontificie del 1309 come “ecclesia san Nicolai de Pumpulo”, annessa al monastero di San Benedetto di Salerno. Il 15 ottobre 1811 viene soppressa, ma aperta al culto per un altro mezzo secolo, e il territorio è annesso a quello di Santa Margherita, altra chiesa di fondazione medievale, che assume il titolo di entrambi i santi. Il culto di San Nicola in Campania ha origini assai antiche, infatti il nome del santo è inserito nel celebre calendario marmoreo, conservato nel duomo di Napoli, datato tra l’821 e l’841, e sempre in Campania nasce la prima Vita del Santo in latino. Non desta quindi stupore il nascere, in una città importante come Salerno, di una o più chiese dedicate al vescovo di Myra, città ellenica dell’Asia Minore, attuale Turchia. Quello che rimane oggi di quel luogo di preghiera e rosari sgranati è un rudere malconcio, prossimo al crollo, invaso dalla natura e dalla disgrazia più totale. Già nelle foto scattate durante gli anni 60 da Crisci e Campagna, a 150 anni circa dalla sua soppressione, si può evincere che l’edificio era stato adibito a stalla e luogo di lavoro, ed infatti ancora oggi è possibile notare diverse costruzioni posticce addossate alla parete di destra ed alcune baracche e recinti incastrati nella parete posteriore. L’interno della chiesa, ormai totalmente arresosi al declino ed alla forza devastante della natura, conserva miracolosamente ancora molte delle decorazioni in stucco e muratura preesistenti, nonostante il crollo totale del tetto a doppio spiovente, formato un tempo da capriate lignee e manto in coppi e canali. Altari, nicchie, putti e decorazioni, colonnette e stucchi, colombe e fregi, tutto è inserito nel moto perpetuo e continuo dell’oblio, ma risplende ancora, nonostante tutto, di quella meraviglia che è stata l’opera umana, illuminata dall’ispirazione divina. Sparite le tele, gli arredi, i tabernacoli, le acquasantiere. Sembra quasi difficile immaginare che, un tempo, questo edificio abbia ospitato persone e ministranti della Chiesa, opere d’arte e di carità, peccatori e confessioni. Eppure la sua storia passata parla chiaro, è quella presente a sconvolgere ed intristire. Camminando intorno alla struttura pare quasi di aggirarsi sul set di un film post apocalittico, dove tutto è fermo e soffocato da rifiuti e detriti di ogni tipo. Le lamiere arrugginite ed inchiodate alla parete posteriore, un tempo ricovero di animali ed attrezzi, squarciano a metà la muratura gravandola di un peso tragico più da un punto di vista estetico che statico. L’edificio è imponente, solenne, ieratico, nonostante sia fatiscente e poggiato su fondamenta marce. I contrafforti nei due angoli anteriori, e quelli nella parete posteriore, sembrano quattro pugni piantati con forza a terra, ad assicurarsi una vita architettonica longeva. Quella spirituale, invece, fu sicuramente affidata ai piani alti e tradita dai piani bassi. Dispiace oggi doverne parlare in questi termini, trattarla come un morituro allettato e sconfitto, vestigia buone a crear scenari per storie dell’orrore e discariche per l’inciviltà, ma in eredità alla nostra società sembra esserci rimasto ben poco. Quando piogge ed incuria, piante rampicanti e dannazione avranno avuto la meglio su tutto, su quel che disperatamente si è salvato, conserveremo forse solo la memoria dell’ennesima ricchezza dispersa nella torbida superficialità globale, avida di un futuro qualunque e troppo poco di incredibile ed unico passato. Michele Amoruso
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