di Antonio Manzo
Mafia e Stato, la guerra. E’ il 27 luglio 1993 e a via del Corso a Roma, pochi passi dal Parlamento, nella giornata calda dell’epoca passeggia, solitario, il capo della Polizia Vincenzo Parisi. Siamo intorno all’una e Parisi entra nell’allora Bar Alemagna per un rinfrescante aperitivo. Sempre da solo. “Scusa, ma quello è il prefetto Parisi? Ma è da solo? Allora possiamo stare tranquilli”. L’ improvvisa e rassicurante scoperta induce due giornalisti politici “quirinalisti” a rivedere Parisi, senza disturbarlo nella sua passeggiata solitaria. “Se Parisi cammina senza scorta dobbiamo essere più che tranquilli” si dicono tra loro i due con la tranquillizzante scoperta del mitico capo della Polizia a spasso da solo nonostante la mafia avesse già portato a segno gli attentati della guerra decisa dalla mafia allo Stato, a partire dai due attentati di Palermo, a Capaci e a via D’Amelio appena un anno prima. Incuranti della passeggiata solitaria di Parisi, se ne tornano al lavoro nella sala stampa della Camera, dall’ingresso di piazza del Parlamento, continuando solo a commentare con speranza fiduciosa l’atteggiamento del capo della Polizia. Ma per i due giornalisti sarebbe stata solo l’anticipo dei una notte tragica della guerra aperta dalla mafia e che, di lì a qualche ora, avrebbe fatto contare altri attentati contemporaneamente in due città a Roma a san Giorgio al Velabro e a Milano, vittime innocenti e stragi. E’ la “stagione stragista” di Cosa nostra, allora guidata dai “corleonesi” di Riina e Provenzano. Le due bombe della notte del 27 maggio 1993 hanno un clamoroso e inquietante retroscena: intorno all’una di notte viene “isolato” Palazzo Chigi, non si potrà più telefonare. Quasi un colpo di Stato, orchestrato dalla mafia assassina con servizi di sicurezza deviati (era il tempo della cosiddetta “Falange Armata” che aveva preso di mira principalmente il presidente della Repubblica Scalfaro protagonista anche del famoso messaggio televisivo del “non ci sto” dopo le eclatanti minacce dei Servizi deviati. E’ il 3 novembre 1993 e Scalfaro dice a reti unificate “a questo gioco al massacro io non ci sto). Nella notte del 27 luglio 1993, trent’anni fa, c’era stato il black out telefonico a Palazzo Chigi. Ma i giornalisti, seguendo i mezzi di soccorso diretti a San Giorgio in Velabro, raggiungono il luogo dell’attentato romano e in possesso delle prime notizie acquisite sul luogo ma anche sentendo anche di quelle provenienti da Milano, dettano drammatiche righe al telefono a gettoni per la seconda edizione dei giornali (come avvenne per chi scrive per conto de Il Mattino). D’altro capo del telefono c’è il paziente redattore capo di turno Pietro Gargano, grande professionista quell’ora in servizio per il turno di “copertura”( è il turno di notte che dovrà dare l’ok finale alla tipografia dopo aver controllato il giornale). A braccio, per le redazioni a quell’ora chiuse, il pezzo delle tragiche notizie. A quell’ora di notte il presidente Scalfaro dorme nella sua casa privata di via Camilo Serafini a Roma. Viene svegliato dall’irrompere del segretario generale del Quirinale Gaetano Gifuni e del capo della Sicurezza del presidente il prefetto Vittorio Jannelli. Scalfaro a telefono dalla sua abitazione raggiunge il presidente del Consiglio Ciampi (in quelle ore nella sua villetta estiva dei Santa Severa, località balneare romana) e il capo della Polizia Parisi, in mattinata solitario della passeggiata mattutina di una imprevedibile svolta tragica nella stessa notte con ennesimi e pesanti avvertimenti e attentati. Chi scrive la notte delle bombe non poté usufruire dei telefoni bloccati della sala stampa di Palazzo Chigi. Intorno all’una non restava che fidarsi del telefono a gettoni ubicato di fronte all’allora libreria Rizzoli della galleria Alberto Sordi.
Per colpire magistrati e uomini delle forze dell’ordine che erano ritenuti troppo “pericolosi” ma anche per colpire lo Stato dopo il maxiprocesso che aveva duramente colpito la mafia siciliana e per tentare di spingerlo ad allentare le misure contro i mafiosi la mafia aveva organizzato la sua strategia di morte. Dopo Capaci e via D’Amelio, le stragi che uccisero Giovanni Falcone, la moglie e gli uomini della scorta e poi il giudice Borsellino e la scorta. Non furono i soli due attentati. Il 14 maggio 1993 un’autobomba esplode in via Fauro a Roma, al passaggio dell’auto di Maurizio Costanzo, ritenuto da Cosa nostra responsabile di un informazione antimafia. Il giornalista e la compagna Maria De Filippi restano illesi. 24 i feriti.
Nella notte tra il 26 e il 27 maggio 1993 un’autobomba esplode a Firenze nei pressi del museo degli Uffizi. Muoiono cinque persone: i coniugi Fabrizio Nencioni e Angela Fiume con le loro figlie Nadia (9 anni) e Caterina (appena 50 giorni) e lo studente Dario Capolicchio, i feriti sono 40.
La sera del 27 luglio 1993 esplode un’autobomba presso la Galleria d’arte Moderna e il Padiglione di arte contemporanea di Milano provocando la morte di 5 persone: i vigili del fuoco Carlo La Catena, Sergio Pasotto e Stefano Picerno, l’agente di polizia municipale Alessandro Ferrari e Moussafir Driss, immigrato marocchino che dormiva su una panchina.
Nella notte tra il 27 e il 28 luglio 1993 due autobombe esplosero davanti a San Giovanni in Laterano, la Cattedrale di Roma, e alla chiesa di San Giorgio in Velabro. Complessivamente si contarono 22 feriti. Era la risposta di cosa nostra al forte intervento di Giovanni Paolo II ad Agrigento, quel “Convertitevi! Verrà un giorno il giudizio di Dio!”.
Il 23 gennaio 1994 un’autobomba doveva esplodere in viale dei Gladiatori a Roma, all’uscita dello stadio Olimpico, dove si trovava un presidio dei Carabinieri in servizio di ordine pubblico per la partita di calcio Roma-Udinese. L’esplosione non avvenne per un malfunzionamento del telecomando che avrebbe dovuto innescare l’ordigno. Ma resta in piedi anche l’ipotesi che sia arrivato l’ordine di sospendere l’azione.
Un progetto, al quale partecipò in parte anche la ‘ndrangheta, su cui ancora indagano le procure di Caltanissetta, Reggio Calabria e Firenze, per scoprire “entità esterne” che si allearono coi mafiosi.
All’elenco che segue va aggiunto il fallito attentato con una bomba il 14 aprile 1994 a Totuccio Contorno, “pentito” molto importante al maxiprocesso, vicino alla sua villa di Formello, nella campagna romana.
A organizzarlo Matteo Messina Denaro che fu anche nel gruppo di fuoco, assieme ad altri due mafiosi di peso come Leoluca Bagarella e Giuseppe Graviano, che provò ad uccidere il 14 settembre 1992, sul lungomare “Fata Morgana” di Mazara del Vallo, il commissario Rino Germanà. Doveva essere un ulteriore delitto eccellente di quell’anno terribile, era il terzo della lista dopo Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, coi quali Germanà aveva lavorato strettamente e ancora lo faceva, soprattutto sull’intreccio mafia-politica affari. Indagini delicatissime che dovevano essere bloccate. E sulle quali sta cercando ancora oggi di fare chiarezza la procura di Caltanissetta. Matteo Messina Denaro che verrà condannato all’ergastolo per entrambe le stragi solo nel 2020, in primo grado. Ben quattro i processi per via D’Amelio. Il primo nasce dalle false rivelazioni del mafioso Scarantino, un clamoroso depistaggio, con complicità istituzionali, che portò a condanne poi annullate. I successivi tre identificano mandanti ed esecutori, in gran parte gli stessi di Capaci, portando a 12 ergastoli e molte altre condanne. Nel 1994 tutte le indagini sugli attentati passarono alla Procura di Firenze, condotte dal procuratore capo Pier Luigi Vigna e dai sostituti procuratori Francesco Fleury, Gabriele Chelazzi e Giuseppe Nicolosi. Alla fine di vari processi la Cassazione ha confermato 19 ergastoli tra vertici e “soldati” di cosa nostra, come mandanti e esecutori, oltre a varie altre condanne. Sempre a Firenze resta in piedi l’inchiesta sulle “entità esterne” nel quale sono ancora indagati Berlusconi e Dell’Utri.
A parlare è Giuseppe Graviano, non collaboratore di giustizia, condannato per tutte le stragi e per l’omicidio di don Pino Puglisi, che ha raccontato di vari incontri con Berlusconi. Lo ha fatto nel corso del processo “ndrangheta stragista” dove poi è stato condannato all’ergastolo assieme a Rocco Santo Filippone, esponente della cosca ndranghetista dei Piromalli, per l’attentato che il 18 gennaio 1994 portò alla morte dei due carabinieri Antonino Fava e Vincenzo Garofalo. Una sentenza che ha confermato l’adesione, almeno iniziale, della ‘ndrangheta al progetto stragista.
“Quegli attentati- ha commentato Luigi Ciotti, presidente nazionale di Libera– furono la risposta di Cosa Nostra a uno Stato e una Chiesa che non taceva di fronte alle ingiustizie e alle violenze mafiose. Una Chiesa che in molte sue espressioni ha risposto positivamente in questi anni alle minacce e intimidazioni, mettendosi in gioco. E tuttavia permangono certi eccessi di prudenza, certe rigidità. Ecco allora la necessità di continuare a saldare Cielo e Terra, dimensione spirituale e impegno sociale, denunciando con parole e fatti conseguenti non solo le mafie ma tutte le forme di “mafiosità” che spianano la strada al potere mafioso. È l’impegno a cui richiama Papa Francesco. Un Papa che di fronte ai famigliari delle vittime ha chiesto “in ginocchio” ai mafiosi di convertirsi, poi ha denunciato la mafia come “adorazione del male” e scomunicato i suoi membri e complici. Ma che non manca di sottolineare le ingiustizie “legalizzate”, l’evidente commistione tra le logiche criminali e quelle di un sistema economico che in nome del profitto riduce in povertà milioni di persone. I gesti e le parole del Papa, il suo sottolineare l’incompatibilità fra mafia e Vangelo sono di grande incoraggiamento per quelle realtà di Chiesa che vivono il Vangelo con la necessaria radicalità e s’impegnano, anche in contesti difficili, per affermare la dignità e la libertà delle persone. Segni di un fermento che spero si moltiplichi e metta radici, lasciando definitivamente alle spalle le ombre, le sottovalutazioni, i silenzi e anche le complicità che hanno caratterizzato a volte l’atteggiamento della Chiesa nei riguardi delle mafie.”