Un Vasco Rossi mitologico ed ecumenico - Le Cronache
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Un Vasco Rossi mitologico ed ecumenico

Un Vasco Rossi mitologico ed ecumenico

Due giornate di grandissima partecipazione ed emozioni per il popolo del Komandante, alla testa di un gruppo affiatato ed empatico, springsteeniano. Pubblico in delirio e giardinetto pirotecnico per il finale e la promessa di ritornare il prossimo anno

Di Olga Chieffi

Mick Jagger e Bruce Springsteen i miti di Vasco Rossi, musicista a livello musicale indefinibile, primo a citare il punk, primo a citare il reggae, compositore di pezzi dance, tecno-pop come “Ti prendo e ti porto via” e raffinatissime canzoni d’autore come “Sally” o “Albachiara” che ha chiuso la due giorni con il Komandante tra i cori, fumi, colori dei fuochi pirotecnici allo stadio Arechi. Occhio certamente diverso il nostro abituato a contesti classici ma, citando a lume di naso le parole di Ivan Della Mea, abbiamo assistito ad un grande fatto comune, quasi ecumenico, di cui Vasco è stato pretesto e officiante al contempo, testimone e propositore a un tempo, di una generosità vera, grande e buona, interclassista e intergenerazionale, di gente che vede in lui la “voce” di una piccola protesta forse, ancora possibile e vera, oltre le furbizie della ragione manageriale, fatta di piccoli slogan libertari, nel segno di un’anarchia un po’ scoppiata eppure generosa. Vasco canta “Siamo solo noi,/ quelli che poi muoiono, presto/ quelli che però è lo stesso” e si intende immediatamente che questo “noi” è diverso da quello che ha caratterizzato i decenni precedenti. Lo scenario oggi non è la società, ma una moltitudine di individui. Dopo l’inizio con “Dillo alla Luna”, l’invito a guardarsi negli occhi, a ricercare la verità, una verità che non si veste mai di rosa, lo “Stendimi” richiesto alla platea salernitana, leggero e pesante, profondo e superficiale, duro e morbido nello stesso momento, procedendo con Rock’n’Roll Show, che guarda musicalmente al genere all’italiana, anche nelle percussioni, passando per “Non sei quella che eri”, “Ogni volta” con arrangiamenti depurati dalle incrostazioni di tanti tour, quindi in versione vicina all’originale, sino a “Ti prendo e ti porto via”, citazione del romanzo di Niccolò Ammanniti, il set dedicato alla protesta pare abbia creato in diverse persone presenti un abbassamento di tensione, poiché avrebbero inteso continuare sull’onda dei grandi titoli, dopo una “Canzone d’amore buttata via”,  con il Vasco prima maniera, magari anche di “Vado al massimo”. Ma con un repertorio così vario e sterminato la scelta è stata, da parte di Vasco di continuare, comunque, a non diramare messaggi positivi o tout court, ma nella bottiglia, ad esempio nel medley dove, nella canzone “Come nelle favole” ha passato in rassegna tutti i partiti e tutte le ideologie, o ancora “Manifesto futurista” o “XI comandamento” o l’attualissima “Gli spari sopra”. Sono queste, certamente, le canzoni di quel Vasco fase seconda che ci restituisce un Komandante sempre meno barricadero e sempre più scettico, consapevole di una giovinezza che sfuma anche nella nostalgia, della realtà che stritola i sogni, del tempo che scorre portandosi via il meglio di noi. Sul palco è apparso un Blasco intriso del suo romanticismo stravaccato e popolare, pari al suo look deliberatamente négligé. Band sopra le righe, che si è rivelata in tutto il suo spolvero nell’Interludio strumentale, che ha praticamente permesso a Vasco Rossi di cambiarsi e riposare. Vince Pastano alle chitarre e direzione musicale, un musicista che col suo sorriso può  assolverti e redimere, Stef Burns alla chitarra, Alberto Rocchetti alle tastiere e cori, Matt Laug alla batteria, Andrea Torresani al basso, Antonello D’Urso alla chitarra acustica, programmazione e cori, Andrea Ferrario al sassofono, Tiziano Bianchi alla tromba, Roberto Solimando al trombone, Roberta Montanari ai cori e quale special guest Claudio Golinelli, il “gallo” al basso, hanno suonato sul tema lunare dell’introduzione, dove una statua che riproduce il volto di Vasco giace abbandonata, sul suolo del nostro satellite. Come al solito le performances dei musicisti della band si susseguono una dietro l’altra, fino a sfociare in Echo Lake, brano di Stef Burns tratto dall’album Swamp Tea del 1999 ed eseguito quasi per intero, una canzone che ricorda molto lo stile di Jeff Beck, scomparso da poco e della sua iconica “Cause We’ve Ended As Lovers”. Interludio che ha rivelato suoni classici e puliti dei fiati e in particolare della splendida tromba di Bianchi, che ha aperto, con sordina, anche il brano “Vivere”. Medley che ha quindi elevato la tensione con Rewind e i reggiseni che sono volati in cielo e sul palcoscenico, passando per “Il blues di una chitarra”, Incredibile romantica e Ridere di te” con il sassofono alto di Ferrario ad elevarsi con suono propositivo e graffiante sull’intera band. Lo stadio è letteralmente esploso su “Vita spericolata”, canzone simbolo di Vasco, quasi il suo “Nessun dorma!”, insieme all’enorme platea di oltre trentaseimila persone che è riuscita a coinvolgerci in pieno nel suo variopinto gioco, portandoci a smemorarci, ad ogni suono e parola, anche stonata, in una stupefacente mescolanza, che ha dato luogo ad un profilo romanzesco, svelante la contemporaneità di ogni luogo e di ogni tempo, con la sua debolezza e la sua forza.